È uno scandalo! O no?
Quando arrossire davanti ad un pezzo di arte antica dal contenuto “sfacciatamente” sessuale non è certo indice di un alto sistema morale
di Alessia Signorelli
Qualche settimana fa, “sfogliando” il sito web della BBC, mi sono causalmente imbattuta in un “simpatico” quanto illuminante articolo, scritto dallo storico e critico dell’arte Alastair Sooke, relativo alla presenza di alcuni artefatti di natura erotica e/o violenta esposti alla mostra su Pompei ed Ercolano, organizzata ed ospitata presso il British Museum.
Nel suo articolo, Sooke, partendo dalla famigerata statuetta, ritrovata nel XVIII secolo proprio durante uno degli scavi di questa tribolatissima area storico-archeologica, che raffigura il dio Pan impegnato in un coito con una capra, si interroga – e fornisce la sua spiegazione – del perché sia così frequente trovare nei reperti di origine romana dei riferimenti costanti e persistenti a sesso e violenza, spesso declinati in una maniera che noi “contemporanei” potremmo trovare ben più che scandalosa. Il pensiero di Alaistar Sooke a riguardo, può essere riassunto in due affermazioni: “Different cultures view the same things in different ways. Art that we consider shockingly erotic or violent was commonplace in the Roman world.” e “Ancient Rome was a curious mixture of civilisation and barbarism.”
Entrambe vere, ed entrambe condivisibili sotto molti aspetti. Spostandoci però al di fuori dei confini della mostra presa in esame nell’analisi di Sooke, è chiaro che l’atteggiamento di difesa – non privo di una certa ipocrisia di fondo – che porta a sibilare “questo è uno scandalo”, nei confronti di qualsivoglia forma d’arte che spezzi la tranquillità apparente e ci sbatta in faccia le nostre fantasie più nere e deviate o anche semplicemente meno “perbene”, è più forte che mai nella nostra società.
Retaggio degli albori ottocenteschi di una proto-borghesia, lo “scandalo” ha sempre avuto una funzione doppia: quella di dare un senso di “pulizia” alle coscienze di quelli che ne gridano la presenza e, al tempo stesso, marchiare d’infamia i propinatori di tale scombussolamento morale e di costume; tra le righe, però, ha anche contribuito a creare un’aurea “mistica” attorno agli scandalosi; guardare (perché siamo tutti un po’ voyeur), ma non toccare (perché siamo anche un po’ masochisti).
La cosa “divertente” è che la mentalità dello scandalo ha passato il proprio tempo a riversarsi anche su quegli artefatti che, originariamente, di scandaloso non avevano proprio niente – vedi la statua del dio Pan impegnato ad amoreggiare con la capra, citata da Sooke – proprio per la loro collocazione storica e sociale. Ed ecco che, a questo punto, si presenta la solita, sarcastica ironia della nostra società, così preoccupata del proprio buoncostume che arriva a censurare baci omosessuali, o arrossisce davanti a statue di epoca romana, ma che permette che la violenza, quella vera, quella più raccapricciante perché mascherata da tante altre cose (e, paradossalmente, considerate necessarie), trasudi incontrollata e si infiltri ovunque, andando a creare uno strato impermeabile a ragionamenti meno “stagnanti.”
Ma, del resto, è molto più semplice scagliarsi contro l’arte “scandalosa”, contro la “musica del diavolo”, contro libri “devianti”, piuttosto che fare davvero i conti con la propria coscienza ed iniziare una riabilitazione personale che comporti un riposizionamento della soglia dello “scandalo”.