Il Paese dei diritti “negati”
Settimana intensa, per i diritti LGBT: mentre alla Camera dei deputati PD e SC decidevano di votare una “legge farsa” contro l’omofobia, l’assessore alla scuola del Comune di Bologna toglieva la dicitura “padre” e “madre” dai documenti per l’iscrizione ad asilo ed elementari. Entrambi i provvedimenti hanno suscitato scalpore, ma l’Italia è indietro anni luce rispetto al resto d’Europa
di Guglielmo Sano
Qualche tempo fa l’assessore con delega per i diritti civili del Comune di Venezia, Camilla Seibezzi, aveva proposto di cambiare la dicitura “padre” e “madre”sui documenti per l’iscrizione agli asili nido e alle scuole elementari – sostituendola con quella più “ampia” di “Genitore 1” e “Genitore 2”. Niente di eccezionale, ma subito la proposta era stata raccolta e incoraggiata dal Ministro all’integrazione Cecile Kyenge.
Le polemiche non si sono fatte aspettare: qualcuno, però, ha raccolto la sfida lanciata a Venezia per “non continuare a usare una definizione stereotipata ormai abbandonata in tanti paesi d’Europa”, per dirla come la Seibezzi.
L’assessore alla scuola del Comune di Bologna, Marilena Pillati, seguendo l’imput della capogruppo di Sel, Cathy La Torre, il 18 Settembre ha comunicato che sui moduli scolastici non sarebbero state più presenti le voci: “padre” e “madre”. L’intenzione era di non creare alcuna gerarchia ma anche di non discriminare (più) i “nuovi” modelli famigliari: sui moduli sarebbe apparsa solo la parola “genitore”, al massimo sarebbe stata inserita la possibilità di precisare il “genitore richiedente” l’iscrizione.
È bastato un giorno per far desistere la giunta, con a capo il Sindaco Merola, dal proposito di portare avanti la proposta. Spietata l’opposizione di Lega Nord e Udc, alla quale si è poi aggiunta quella di molti cittadini che, mostrando insofferenza verso il nuovo provvedimento, hanno chiesto a gran voce un referendum sulla questione.
Non ce n’è stato bisogno. Il 19 Settembre l’assessore Pillati faceva marcia indietro e, attraverso la voce del capogruppo Pd Francesco Critelli, annunciava che “è stato dato mandato ai tecnici di modificare gli attuali moduli per dare ai singoli utenti la possibilità di riconoscersi nella definizione preferita”. In sostanza, le parole “padre” e “madre”, restano dove stavano anche prima.Una buona occasione fallita, insomma. Un esempio che dalle “due Torri” in poi sarebbe servito ad affermare e ampliare la gamma dei diritti civili.
Sicuramente si fa peggio a Roma, più precisamente alla Camera dei Deputati, dove una legge presentata come “anti-omofobia” potrebbe in realtà garantire l’impunità a chi attua comportamenti di chiaro carattere discriminante nei confronti degli omosessuali, dei transgender, dei queer.
Possiamo riassumere nei punti a seguire la vicenda, ormai annosa, dei tentativi della politica di salvaguardare le vittime di discriminazioni dovute all’orientamento sessuale – cui spetterebbe in realtà “dignità sociale” per il semplice fatto di essere cittadini della Repubblica Italiana, come sancito dall’articolo 3 della Costituzione.
Nel 2009 un progetto di legge viene bocciato proprio a causa della dicitura “orientamento sessuale”: pare che per il nostro Parlamento rappresenti un concetto vago che potrebbe riassumere anche comportamenti ritenuti “devianti” – dalla zoofilia alla pedofilia, passando per il masochismo e il sadismo, fino ad arrivare alla necrofilia.
Nel 2011, ci si riprova. Anche questa volta, però, la legge in questione viene rigettata: produrrebbe un “trattamento favorevole” nei confronti di alcune categorie di cittadini – successivamente i deputati Soru e Concia hanno pensato all’escamotage di introdurre “omofobia” e “transfobia” come “aggravanti” di un “delitto-base”.
Questa proposta, sebbene ancora discussa, ha il difetto di applicarsi a reati che per essere perseguiti necessitano di una denuncia. Si capisce bene che la maggior parte dei reati a sfondo omofobo non vengono denunciati (7 su 10) per paura di una ritorsione ma anche e soprattutto per non rendere la propria intimità di “dominio pubblico”.
La strada giusta sarebbe quella di estendere la Legge Mancino del 1993, che punisce l’istigazione alla violenza e la discriminazione per motivi razziali, nazionali, religiosi, etnici e per questioni relattive anche all’identità sessuale. Proprio questa è la strada che il Parlamento ha scelto di percorrere pochi giorni fa – su proposta dell’Idv.
Tuttavia vi è un subemendamento alla legge in questione che, non solo è inutile e dannoso, ma potrebbe danneggiare il senso dell’intero provvedimento che porta il nome dell’ex ministro: “Non costituiscono discriminazione la libera espressione di convincimenti o opinioni riconducibili al pluralismo delle idee nel caso siano assunte in “organizzazioni” politiche, sindacali, culturali, religiose” – questo in breve il contenuto dell’emendamento voluto fortemente dal deputato di Monti Gregorio Gitti. Un “salvacondotto”, in sostanza, per garantire l’immunità a partiti xenofobi così come “ai Vescovi”, per le maggiori organizzazioni a difesa dei diritti degli omosessuali, la realtà è questa.
Al circolo Arcigay “Cassero” di Bologna la delusione è doppia: “avevamo chiesto una norma contro le discriminazioni, ne abbiamo ottenuta una che quelle discriminazioni – nelle scuole, nei luoghi della formazione e perfino nei presidi sanitari – le definisce per legge, di fatto sdoganandole” questa la loro opinione sulla legge passata alla Camera, mentre pochi giorni fa avevano salutato la normativa sulle iscrizioni a scuola, poi ridimensionata dell’assessore Pillati: “un esempio di buon senso e di buona politica”.
E dire che un tempo si sosteneva che i nostri delegati politici facessero il gioco del Vaticano e del Pontefice, ma adesso anche Papa Francesco I apre ai divorziati e agli omosessuali, sostenendo che “bisogna sempre considerare la persona”. Che la nostra classe politica sia più “papalina” del Papa stesso?
Una cosa è certa: la nostra classe politica, è molto meno “europea” di quanto voglia dare a vedere. Già nel 2000 il Parlamento europeo ha invitato tutti gli stati membri a completare il proprio quadro legislativo in materia di discriminazioni – con uno specifico invito a includere il divieto esplicito di discriminazioni basate sull’orientamento sessuale – oltre a riconoscere il prima possibile la parità delle coppie omosessuali. In Italia non riconosciamo neanche quelle “di fatto”: i DICO sono morti insieme al Governo Prodi e i Di.Do.Re (diritti e doveri di reciprocità tra i conviventi), proposti nel 2008 dall’ex Ministro Brunetta, devono ancora essere esaminati dalla II Commissioni Giustizia.