Banksy cambia accento. Ma solo per un mese
Dalla Gran Bretagna alla Grande Mela. Nulla di definitivo però! Trenta giorni di tempo, e l’intenzione del famoso street artist di trasformare New York e le sue strade in un museo a cielo aperto. Per parlare alla mondo che passa, anche attraverso un telefono
di Valentina Palermi
Un annuncio sul proprio sito è la traccia che ha lasciato. Per mostrare (e far parlare) la street art con un progetto ben più grande di poche righe su una pagina. In passato era accaduto tra le strade di Los Angeles, tappezzate di graffiti in occasione della sua presunta partecipazione alla cerimonia di premiazione degli Academy Awards 2010. Il suo debutto alla regia con “Exit Through the Gift Shop” gli era valso la nomina a Best Documentary Feature, assegnata infine a Inside Job di Ferguson.
Stavolta però il concept che accompagna l’impresa è più ardito per Banksy, l’artista di Bristol la cui identità e – precisa – età sono scrupolosamente celati. Così come i suoi movimenti per le vie di New York, che stanno cambiando in parte volto con “Better Out Than In”. Un’idea che punta a trasformare la città nella nuova residenza dello street artist, i muri di buidings, apartments, warehouses negli ambienti di una galleria d’arte en plein air.
Perché nonostante abbia girato il mondo – da Israele all’Italia, passando per Melbourne e la Spagna –, organizzato diverse mostre – esponendo anche al Metropolitan Museum of Art –, visto vendere con successo alcune opere attraverso l’autorevole Sotheby’s, generando commenti e reazioni – che talvolta lo etichettano come un virus contagioso, altre lo assumono a genio –, ha sempre preferito discutere di politica, cultura ed etica sui marciapiedi e sui tetti. Raggiungendo le persone in maniera diretta, lasciando dietro di sé, oltre agli stencil riempiti di vernice e spray, un retrogusto satirico, come si confà tipicamente a questo English man in New York.
Dopotutto lo diceva anche Paul Cézanne che “tutte le opere dipinte all’interno, nello studio, non saranno mai buone come quelle realizzate fuori”. Appunto: meglio fuori che dentro.
Un mese – quello di ottobre –, trenta giorni scanditi ognuno da un’opera o più. Banksy non ha perso di certo tempo, cominciando a lasciare il proprio segno martedì scorso in Lower Manhattan. È bastato un cartello che redarguiva dal disegnare graffiti, per immaginare la scena di due ragazzini saltati fuori da un altro tempo e altri spazi, complici e intenti a rubare quella bomboletta di vernice, simbolo di qualcosa di proibito.
Sulla Westside, il giorno seguente, è stato il turno di una saracinesca abbassata, dove ha semplicemente mostrato il suo nuovo accento, e ancora a Midtown, dove un romantico idrante pensa come un cane che fa la pipì su di lui lo completi (anche se c’è chi ci vede della provocazione).
Accanto, un numero telefonico, un contatto gratuito che attiva una particolare audioguida che illustra ai passanti concetti e tecniche nascoste dietro alla creazione fresca fresca. Arricchiti da una buona dose di ironia, fedele allo stile dell’artista.
Ogni lavoro viene inserito poi in un catalogo digitale, attraverso i post dello stesso Banksy sul suo profilo Instagram, sul sito, e su Tumblr, per consentire a chi è lontano migliaia di chilometri di seguire la sua avventura, e ai newyorkesi di andare alla ricerca dei graffiti, in una sorta di nascondino o caccia al tesoro.
Ma soprattutto, per mantenerli indelebili nella memoria e nella coscienza di tutti. Alcune tra le prime opere sono state infatti cancellate o danneggiate per mano di emuli e contrari, come accaduto al cartello “Il graffito è un crimine”, sostituito a quanto pare da un esplicito “L’arte di strada è un crimine”. O addirittura riverniciate dalle autorità: la sorte capitata a “The street is in play”, realizzata al numero 18 di Allen Street, Chinatown, coperta da vernice bianca e dalle parole “Sweaty palms made me lose the love of my life”, nascoste a loro volta dalla manutenzione pubblica.
Un gioco al rialzo all’insegna di piccoli reati pare essersi innescato, generando imitazione e disordine, così come spesso evidenziato dall’ex sindaco Giuliani durante il suo mandato, e ancora oggi sostenuto da parte della critica d’arte, che ha invitato Banksy a lasciare le strade per fare un giro al MoMA, forse più attenta alla componente giudicata criminale del suo modo di esprimere l’arte.
L’annosa querelle che punta ad assumere il graffito come espressione artistica più o meno contemporanea probabilmente non si placherà nemmeno in funzione del nuovo progetto dell’artista inglese. Tuttavia, seppur celato, Banksy è forse il maggior esponente a livello mondiale in grado di combattere in maniera apparentemente leggera quel sottile fronte che sempre meno oggi separa la comunità sociale e il mondo dell’arte, spesso divisi da artificiosi e profondi abissi, ma tuttavia imprescindibilmente legati.
Grazie alla sua anonima e sarcastica guerrilla. Che può cambiare accento, ma non certo sostanza.