Senso di “Gravity”
È uscito il 3 ottobre al cinema il film di apertura della Settantesima Mostra di Venezia con George Clooney e una splendida Sandra Bullock
di Giulia Marras
Gravity, diretto da Alfonso Cuarón, già regista de I figli degli Uomini, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban (da molti giudicato il migliore episodio della saga cinematografica) e Y tu mama tambien, non è solo un film su una missione spaziale tragicamente interrotta da una scia di detriti che costringeranno i due austronauti Sandra Bullock e George Clooney alla lotta per la sopravvivenza nel vuoto e nell’oscurità dello spazio, ma anche un film sulla solitudine, l’abbandono, la morte e la rinascita, personale e universale.
I due infatti, nella loro opposizione caratteriale, tra la disperazione della Bullock e l’ottimismo spiritoso di Clooney (che si ritrova con un personaggio parecchio simile alla sua immagine pubblica), dovranno condurre un viaggio nella gravità tra stazioni spaziali americane, russe e cinesi, distrutte una dopo l’altra, in una sorta di metafora della distruzione delle maggiori potenze mondiali e delle loro differenze culturali, verso un finale che rimarca l’essere primordiale dell’uomo.
Lo stesso Cuarón, che ha scritto la sceneggiatura insieme al figlio, racconta che dietro Gravity si nascondono diversi significati, come i detriti simboli delle avversità della vita, mentre l’amico regista Guillermo Del Toro ha commentato: “Hai scritto la tua autobiografia, cabròn!”. Non si tratta quindi di pura fantascienza, ma sicuramente di un’esplorazione dello spazio e dell’animo, tra la consapevolezza di sé in un ambiente isolato e prove di coraggio e di fede (non verso una religione, come indicano le statuine delle icone sulle diverse navicelle, ma appunto nella propria forza individuale). Un viaggio che la Bullock affronterà per la maggior parte del tempo da sola, abbandonata ai suoi fantasmi, tecnici e spirituali.
Il 3D in questo caso funziona e coinvolge, senza imporsi troppo, forse proprio grazie all’unicità dell’ambientazione e alla sua assenza di gravità che rende lo spostamento e il fluttuare degli oggetti ancora più credibile. E la fotografia di Emmanuel Lubezki, che ha lavorato anche per Terence Malick, rende agibile una profondità di campo estesa, e una luminosità romantica e veritiera.
Detto questo, dobbiamo aggiungere che Gravity è pur sempre prodotto come blockbuster hollywoodiano, e dopo i primi venti minuti introduttivi in piano-sequenza, non smette di ricordarcelo: la tensione cresce sempre di più, anche grazie ai portentosi effetti speciali ma l’impressione è che si voglia evitare a tutti i costi la lenta sospensione temporale kubrikiana, seppure non è stato risparmiato l’azzardatissimo paragone con 2001 Odissea nello spazio. E in quanto blockbuster si lascia andare anche a momenti di patetismi e lacrime facili.
Se si fosse lasciato andare invece verso un “cinema d’autore”, verso una maggiore introspezione, riflessa in quel bellissimo paesaggio di sfondo rappresentato; o a un maggiore numero di scene simili alla bellissima danza della Bullock nella ritrovata navicella spaziale che metaforicamente diventa utero, e preparazione alla rinascita; non rincorrendo per forza un’azione serrata e asmatica, Gravity sarebbe stato senz’altro il film dell’anno e la vera rivelazione di quest’ultimo povero festival di Venezia.