The Act of Killing di Joshua Oppenheimer nelle (poche) sale italiane
È uscito il film documentario che ha sconvolto i festival: The Act of Killing racconta il genocidio indonesiano del 1965 tramite i suoi protagonisti. Gli assassini, felici di ripetere i loro crimini di fronte a una telecamera
di Giulia Marras
“I had never seen anything as powerful, as frightnening, and as surreal as was what on the screen.” Werner Herzog
Presentato prima con proiezioni private in luoghi segreti, poi distribuito coraggiosamente nei maggiori festival mondiali e qua premiatissimo, come a Toronto o Berlino, l’uscita di The Act of Killing è stata una sorpresa. Ma un atto dovuto, una scelta politica, oltre che morale e naturalmente artistica. Così a quasi 40 anni dal genocidio indonesiano del 1965-66 da parte del movimento paramilitare, che tutt’ora conta tre milioni di seguaci, chiamato Gioventù Pancasila, nei confronti del partito comunista cinese, ma non solo, anche intellettuali, ribelli, contadini, è uscito il film documentario di Joshua Oppenheimer che ne racconta la storia e le conseguenze sulla società indonesiana attuale, attraverso il particolare e distorto punto dei vista dei suoi protagonisti. Non le vittime, bensì gli stessi esecutori della strage.
Il processo con il quale è stato costruito The Act of Killing, infatti, è del tutto nuovo, rivoluzionario, anche a detta dei suoi produttori esecutivi Werner Erzog e Errol Morris, che di documentari sanno due o tre cosette.
I carnefici, rimasti impuniti, mai giudicati da un processo, mai condannati per crimini di guerra, anzi premiati, considerati eroi, e che ancora mantengono, grazie alla protezione della Gioventù Pancasila, una posizione di potere in un regime praticamente totalitario, nonostante l’Indonesia sia una repubblica, in una relazione di inspiegabile fiducia verso la macchina da presa di Oppenheimer, raccontano e inscenano gli interrogatori, le torture e le uccisioni dei comunisti. Come per un vero e proprio film, ricostruiscono i set, scelgono gli attori, i costumi, le location per la rappresentazione del tragico evento storico, vissuto da chi l’ha messo in scena originariamente e lo vuole raccontare come un merito. La liberazione del proprio popolo dalla terribile minaccia comunista.
Nella costruzione intarsiata del documentario, tra interviste ai protagonisti, prove, ciak, scene reali dal presunto film, ma anche momenti di vita quotidiana nelle loro famiglie, e scorci della società indonesiana a Giacarta e del suo clima di terrore, scopriamo infatti che tali assassini, che si auto-definiscono gangster “uomini liberi”, sono fieri e orgogliosi delle loro gesta violente. Mostrano i sistemi da loro inventati per una morte più pulita e veloce (“non potevo mettermi pantoloni bianchi”) e vengono celebrati dalle televisioni per aver sterminato efficacemente il comunismo.
Ancorati alla mentalità di quarant’anni fa, con il mito occidentale del cinema (i comunisti non volevano farci vedere i film americani), dell’abbigliamento, del lusso, della violenza gangster dei film di Al Pacino, l’idea di diventare star in un film su loro stessi li eccita, li diverte, e nella loro completa trasfigurazione dell’evento, nella loro sfacciataggine di fronte al gesto della morte, incarnano il ridicolo e lo trasportano nelle loro interpretazioni. E ciò diverte anche noi, spettatori del male, inerti e lontani. In tal senso, è un gioco maledetto quello di Oppenheimer: come afferma lo stesso Morris, The Act of Killing pone una serie interminabile di domande sui suoi protagonisti e su di noi, oltre che sul cinema documentario, sull’arte, sulla politica.
“Da che parte devono porsi la colpa e la vergogna? In loro, o in noi, che guardiamo?” Errol Morris
Dal punto di vista essenzialmente stilistico, Oppenheimer opera un raffinato gioco tra finzione e realtà, tenendosi a distanza dagli assassini nei momenti in cui si raccontano, ricordano impassibili alla telecamera le loro atrocità, e dissacrando invece le loro figure sul set, sconfinando in un surrealismo macabro che cerca di riflettere la perversione delle loro psicologie.
Oppenheimer cerca di comprendere la follia di queste menti, ribaltando anche i ruoli che interpretano nel film: a turno così, interpretano le vittime, e in quei momenti qualcosa sembra succedere. Segnali di pentimento? Certe reazioni fisiche estreme sembrano suggerirlo, ma non ci è dato saperlo con sicurezza.
The Act of Killing è terribilmente violento e disturbante: in realtà non si vede una goccia di sangue, è tutto finto, ma è come se di sangue e follia si riempisse lo schermo. E così diventiamo noi i cattivi della storia, quella dei genocidi che dimentichiamo, e diventano poi solo puro materiale cinematografico
E ci sentiamo ancora in colpa, anche durante i titotli di coda, quando gli anonimi riempiono la lista dei collaboratori del regista, la maggior parte dei quali indonesiani.
Una risposta
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