Il “Glamour” dei Cani

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È uscito nei negozi e nei digital store “Glamour”, il secondo disco della band romana I Cani, per la 42Records. Questa non è una recensione

di Giulia Marras

fonte immagine: melty.it

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Questa non è una recensione.

Ci lamentiamo tutti di quante recensioni di dischi sia pieno l’etere, recensioni che raramente leggiamo, e infatti i primi a lamentarsene sono gli stessi redattori delle mille indie web-zine che fioccano e riempiono le nostre bacheche.

Questa non è una recensione, perché non posso purtroppo vantarmi di nessuna velleità, da critica musicale, figuriamoci capacità, ne ho già abbastanza da critica cinematografica e mi sento abbastanza in colpa anche solo per questo.

Questa non è una recensione, perché in fondo io spero che a nessuno veramente interessi l’ennesima voce discordante o simpatizzante su i Cani, e forse sì, ma non è mia intenzione allinearmi con nessuna delle due parti, delle quali poi non si capisce chi effettivamente abbia ascoltato di più il disco.

Questa è una riflessione che parte da un ascolto continuo di Glamour, da una settimana a questa parte, forse anche un po’ malato (ma a quanto pare non sono l’unica, almeno a giudicare dalla mia cronologia di Spotify), nasce dalle prime interviste connesse all’uscita del disco e da questo fastidio dentro il petto che mi provoca questo gran dibattito che si consuma adesso nel web riguardo I Cani.

O forse è solo il web che ultimamente mi irrita, mi fa star male: sono i social network, gli utenti che “no, io non volevo scrivere niente su Lou Reed, però..”, sono i commenti che non c’entrano niente con il post che commentano; sono i gatti, i meme; la glorificazione delle piccole cose che ci mantengono vivi, come certe canzoni, che postiamo sapendo di non essere comunque capiti; certi telefilm che finiscono e sembra essere la fine del mondo; sono gli stati sagaci, intelligenti, troppo furbi o troppo sprecati per Facebook; sono gli aggiornamenti continui, che non mi posso perdere; sono gli articoli su come sia indispensabile Inrternet oggi, e come sia giusto esserne dipendenti; sono le mille applicazioni che fanno in modo che sia inutilmente, immotivatamente sempre on-line; è la mia sete, di capire e sapere tutto, subito, senza che si plachi mai; è la mia perversione, che mi porta a sbirciare il tuo profilo, che hai fatto, con chi sei stato, dove, cosa hai guardato, cosa hai ascoltato; è la nostra dipendenza.

Tutto questo l’ho ritrovato finalmente espresso in qualcosa di concreto, pure sia musica creata al computer, e mi sono sentita meglio con la concretezza di un’immagine vera come quella contenuta in Come Vera Nabokov, l’immagine di una pistola portata in giro per difesa, della carne tagliata sul piatto da qualcun altro per me.

La demonizzazione della vita virtuale, e con essa tutto ciò che le gira intorno, rientrava già nel Sorprendente Album d’esordio, ma con Glamour c’è qualcosa in più. Se il primo disco pretendeva di parlare a nome di una generazione, e di un tipo di generazione in particolare, se non addirittura di un ambiente (romano, indie, come vi pare), ironicamente azzeccandoci e sbeffeggiandosi/ci, il secondo intriga ancora di più perché Niccolò Contessa – questo il vero nome del creatore e unico compositore de I Cani –  parla di sé, di ciò che ha creato, della paura che è derivata dal successo e di quella di perderlo.

Un progetto cioè nato e cresciuto sul Web, e per un certo periodo di tempo volutamente rimasto senza volto, senza foto profilo, quindi senza identità, senza immagine alcuna, come avere un amico che conosciamo solo virtualmente, e scrive da camera sua (sì, perché nella nostra testa non esce, perché non ha foto che lo dimostrino) canzoni che rispecchiano totalmente la nostra vita nei social da una parte, e la nostra inadeguatezza nella vita reale, vera, dall’altra.

Glamour mi ha stupito, perché è come se Contessa si fosse stufato dell’identità da social, si sia smascherato (non solo letteralmente, giacchè si era già liberato della sua busta di carta già dal primo tour) e ci avesse vomitato addosso i risultati psicologici dei nostri commentini spavaldi sulla sua incapacità di suonare o cantare, delle recensioni, delle aspettative, di un successo improvviso, di cui sembra doversi sentire quasi in colpa.

Astro nascente di quattro poveri stronzi 

E quindi dopo una dichiarazione di intenti come Introduzione, quasi a voler dire: parlerò di ciò che mi pare, quindi anche dei gatti e di whatsapp, se non vi piace levatevi da qui, inizia la sua seduta di psicoanalisi.

Glamour insomma ci vuole parlare di sé (Contessa), de I Cani, della paura del successo ma ancor più dell’insuccesso, delle ansie, del suo bisogno di amore, del suo lavoro, dei suoi miti. Ma la verità si trasforma ancora: I Cani lanciano un boomerang che puntuale ci torna addosso, in faccia, sul naso. Nonostante parta da citazioni anche ambigue, Jacopo e S F O R T U N A  (Fine Before You Came), Thurston Moore, il fottuto twee, Piero Ciampi, i Diafaramma; il Premio Tenco; citazioni che quando abbiamo visto la sola tracklist ci siamo messi le mani nei capelli: Vera Nabokov, Fabrizio De Andrè, San Lorenzo, (brividi di terrore);  nonostante Roma Sud, Roma Nord, Corso Trieste, Glamour va a colpire la nostra attuale pretesa di glamour, nel lavoro, nelle amicizie, nella scelta degli idoli da appendere confusamente sulle bacheche (Pasolini e Jay-Z, Pasolini e Jay-Z), e nello stesso tempo la pretesa di non volerlo chiamare glamour (tutto tranne normali).

E dal naso perdiamo sangue: e grazie a Dio non mi ha visto nessuno. I Cani ci sputano addosso contraddizioni: le nostre, ovvero quelle di non voler ammettere di essere e basta, senza essere nulla di speciale, senza aggrapparci alle famose Velleità, e le contraddizioni passate: Eri un genio e un artista, eri ricco e viziato, eri un vero profeta, eri un alcolizzato. Ti festeggiamo ogni anno con mostre borghesi, con le foto profilo, con le tesi di laurea. Perché a noi piacciono i dischi, le foto, i registi, i marchingegni alla moda, le muse, gli artisti.

Potrebbe essere che la nostra superficilità venga ritratta tramite la sua: forse, ma per adesso credo semplicemente che Glamour sia tragicamente sincero, e quindi devastante. La traccia San Lorenzo non funziona, come fanno notare i giornalisti di Rockit, perché ci si è voluto forzatamente allontanare dal nucleo di Glamour, per demonizzare leggermente il rischiato egocentrismo, che c’è, ma non si soffre, anzi si riflette nel nostro contemporaneissimo egoismo. Senza San Lorenzo, Glamour poteva rimanere tranquillamente quasi un concept album (tema: ho paura de I Cani), nessuno si sarebbe offeso. I Baustelle no di certo (il riferimento non è puramente casuale).

Non mi soffermo sull’aspetto musicale, perché, oltre al fatto di essere sicuramente superiore rispetto al  Sorprendente Album d’esordio (anche grazie alla produzione congiunta di Enrico Fontanelli degli Offlaga Disco Pax) non posso essere troppo precisa, e soprattutto perché questa non è una recensione.

Questa non è una recensione, perché si tratta di un’opinione lunga seimila battute buttate giù in un’ora. Uno sfogo alla monopolizzazione di un album che si è imposta quasi inconsapevolmente. Questa non è una recensione, un po’ come l’Introduzione di Glamour, lo ammetto, metto le mani avanti, non mi interessa l’opinione di chi sa lunga.

 

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