Lo sguardo di Jeffries sugli invisibili
A Roma arriva “Homeless”, il racconto fotografico dell’emarginazione
di Federica Salzano
Quanti se ne incontrano ogni giorno agli angoli delle strade, stesi per terra sommersi da cartoni o fogli di giornale? Sono i senzatetto, barboni, vagabondi, emarginati. Molti sono i termini usati per definire chi porta sulla propria pelle i segni di un disagio personale e sociale. Sono tanti, specie nelle strade delle grandi città. Eppure, chi non è scivolato ai margini della società difficilmente si accorge di loro, perché ormai ha perso la capacità di vederli. Come se fossero diventati una normale estensione del tessuto urbano alla quale l’occhio non fa più caso. E per questo è curioso notare come davanti ai ritratti di Homeless – esposti in prima mondiale al Museo di Roma in Trastevere fino al 12 gennaio – si possa invece restare lunghi minuti a interrogarsi sulle storie di quei volti che osservano lo spettatore in silenzio.
L’autore è Lee Jeffries, un quarantenne di Manchester, fotografo autodidatta e contabile di professione. Le sue immagini, inizialmente pubblicate sul profilo Flickr, hanno subito riscosso grande successo e sono diventate un fenomeno di internet. Il primo scatto a un senzatetto Jeffries lo ruba a una clochard di Londra. Quando la donna si ribella, lui decide di fermarsi a parlarle. Prende vita così il suo approccio particolare con queste persone: prima di chiedere il permesso per fare delle foto, cerca di conoscere le loro storie e le loro vite.
E lui di loro sa certamente molto più di quanto voglia far sapere allo spettatore. Per volontà dell’autore, infatti, le immagini non sono accompagnate da didascalie. Nulla è spiegato della persona immortalata. Si può solo provare a immaginare.
Di quel grande viso invece emerge nel dettaglio ogni singolo particolare estetico: le increspature della pelle, i peli, le rughe e le cicatrici. Alcuni volti sembrano simili, tanto da domandarsi se non si tratti della stessa persona, di altri si nota la bellezza, attuale o alterata dal tempo e dall’incuria, ma comunque sempre percepibile. Quello che ricorre costantemente sono le rughe e le cicatrici, sulla pelle quanto negli sguardi.
Sguardi che diventano l’elemento focale del ritratto: intensi, svagati, rassegnati, assenti, disperati, interdetti, ingenui e beffardi. Una gamma di sensazioni che possono solo essere ipotizzate. Chissà cosa pensano davvero mentre vengono fotografati e chissà di quale città del mondo hanno fatto la loro dimora.
Il fotografo ha realizzato i suoi scatti vagando tra le strade di Londra, Parigi, Roma, New York, Miami, Los Angeles e Las Vegas. Metropoli nelle quali si condensano grandi ricchezze e che rappresentano il simbolo della modernità e dello sviluppo occidentale. Questa volta però nelle immagini in mostra vediamo riflessa l’altra faccia dei “lustrini”, le distorsioni e le contraddizioni che accompagnano la realtà attuale.
L’intento di Jeffries è dunque quello di “urlare l’ingiustizia” e mostrare, in tutta la sua crudezza, la realtà di chi è completamente sfornito di quello che comunemente si considera essere il “decoro sociale”. E nel modo in cui lo fa, non c’è alcuna traccia di pietismo. La sua volontà è onorare e non compatire queste persone. Per questo Jeffries non li raffigura come mendicanti che elemosinano lungo le strade ma piuttosto mette in evidenza la luce e la forza dei loro sguardi e delle loro espressioni. In questo senso, il curatore della mostra Giovanni Cozzi considera questo lavoro più che fotografia, vera e propria “Arte Sacra”.
Le immagini in mostra sono inquadrature frontali nelle quali la durezza del bianco e nero si coniuga a un attento lavoro di modulazione delle luci e delle ombre che imprimono al ritratto un ché di trascendente. Come se quei volti fossero calati in una dimensione senza tempo, una dimensione quasi immateriale che all’osservatore appare estranea, eppure potente. Man mano che si scorre lungo il corridoio dove sono esposte le fotografie e dopo aver dedicato a ogni persona immortalata qualche minuto a fantasticare sulla sua storia, quei ritratti sembrano prendere forma e pure corpo, diventando quasi delle presenze nello spazio.
E alla fine effettivamente Jeffries dà vita a un paradosso. Quello di attrarre lo spettatore alla sua mostra e far pagare un biglietto per ricordare la presenza di qualcosa, qualcuno, che si incontra ogni giorno ed è volutamente ignorato. Quasi un rimprovero: “Avevate davvero bisogno di un museo per accorgervi di quello che avete sotto gli occhi?”.
Tutte le foto della mostra sono pubblicate sul sito.