Sport e doping. Intervista al prof. Alessandro Donati: “La mia battaglia contro un sistema malato”
L’ex tecnico della nazionale di atletica leggera dal 1977 al 1987, ora unico collaboratore italiano della WADA, l’Agenzia Mondiale Antidoping, è in giro per l’Italia per una serie di conferenze sullo “sport del doping”, titolo del suo ultimo saggio-denuncia che svela nomi, cognomi e sistemi incriminati
di Paolo Pappagallo
su Twitter @paul_parrot
Alessandro Donati è un uomo scomodo. Uno che, ai piani alti dello star system sportivo italiano vedono come fumo negli occhi da almeno 26 anni. Per la precisione, dai Mondiali di Atletica Leggera di Roma 1987. La sua colpa? Aver svelato l’imbroglio, la frode dei giudici di gara del salto in lungo nell’assegnazione, con misure irreali e totalmente fantasiose, della medaglia di bronzo all’atleta di casa, l’azzurro Giovanni Evangelisti. L’aggravante? Donati, della squadra azzurra di Atletica Leggera, era nient’altro che il commissario tecnico.
Da allora, dall’addio che fu gli imposto dal CONI dopo quell’avvenimento, è partita la sua battaglia contro la corruzione e gli imbrogli che inquinano il mondo dello sport, in particolare per l’argomento doping. Due saggi-denuncia ricchi di verità scomode e di nomi nero su bianco (“Tanto in tribunale non mi ci possono portare, sanno che ho ragione e che potrei portare tutte le prove necessarie in qualsiasi momento”, dice), il tecnico romano è da mesi in giro per l’Italia per una serie di conferenze legate al doping e in particolare al suo ultimo libro inerente al tema, uscito lo scorso anno. L’abbiamo incontrato a Vittorio Veneto, in provincia di Treviso, per un’intervista a margine del suo ciclo di conferenze nella città veneta.
Professore, in un’ideale gara ad inseguimento tra il sistema sportivo nel suo insieme e il mondo del doping, con quanto margine di vantaggio quest’ultimo, nel momento storico attuale, taglierebbe il traguardo rispetto al suo avversario?
È innegabile, il doping sta godendo, in quanto battistrada, di un vantaggio che ha ormai raggiunto dimensioni cospicue. Ma attenzione, questa prerogativa non è dovuta ad una certa superiorità tecnologica del fenomeno rispetto a coloro che sono stati incaricati di fronteggiarlo e combatterlo, bensì sono stati proprio questi soggetti, deliberatamente, a regalargli la possibilità di costruirsi un discreto vantaggio. La corsa tra “guardie” e “ladri” si è trasformata in una farsa: i primi si sono seduti su un muretto, permettendo ai secondi di allontanarsi indisturbati, e solo in seguito, per ottemperare a chi di dovere, è scattata la pubblica caccia ai colpevoli. Il sistema sportivo, con i suoi ritardi negligenti o semplicemente interessati, ha permesso il progresso all’interno del sistema doping, permettendogli un’escalation tecnica che, con un impegno davvero serio e concreto, sarebbe colmabile in breve tempo.
L’attualità, dal recente caso degli atleti giamaicani nell’atletica leggera fino ai mille scandali nel ciclismo degli ultimi anni, ci offre spesso svariate dimostrazioni della massiccia presenza di questo “cancro”, apparentemente soprattutto all’interno di alcuni sport: quanto è complicato difendere la parte sana tra gli atleti di alto livello, perché non vi sia chi arrivi a pensare al doping come strumento imprescindibile per ottenere successi di maggior prestigio?
La premessa è d’obbligo: la competizione è un’apparenza. Gli spettatori badano solo a ciò che vedono, si fidano di quello che appare ai loro occhi. Tutto il resto, il “backstage”, riguarda in primis gli addetti ai lavori. Per cui, quando vengono smascherati casi eclatanti, il pubblico spesso reagisce disorientato e si rende conto di non avere gli strumenti per penetrare ciò che sta dietro alla semplice immagine. Per la verità, alcune sostanze come gli anabolizzanti provocano effetti tutt’altro che impossibili da riconoscere anche a occhio nudo, ma di contro la famigerata EPO è decisamente difficile da stanare. In questo contesto, nel corto circuito in atto tra controllori e controllati, non è facile dare una risposta netta allo sportivo con la S maiuscola, quello disposto a sindacare tutto ma non la propria coscienza etica. Il sistema sportivo veglia su sé stesso, ma vive degli atleti di primissimo piano, sui quali si basano sponsor, diritti televisivi e sovvenzioni pubbliche. E il sistema politico, delegando le proprie responsabilità, ha messo l’intera collettività nei guai: il panorama sportivo si è concentrato sui propri interessi, fingendo di risolvere i problemi al suo interno. Ma ora, piano piano, i classici nodi stanno venendo al pettine: resta ancora molto, moltissimo da fare, ma l’atleta pulito non deve perdere la speranza di farcela e, se può, deve dare il suo contributo nella lotta contro il sommerso. Da par suo, il pubblico dovrebbe ricavare dalla cronaca e dall’informazione degli spunti di riflessione più profondi: occhio che non è tutto oro quello che luccica, attenzione che il sistema sportivo non controlla realmente come vorrebbe far credere.
Certo lascia perplessi pure il fatto che, nel momento in cui venga scoperto, l’atleta spesso rinneghi le proprie responsabilità, adducendo conoscenze sbagliate o scelte mediche operate, a propria insaputa, da qualche membro dell’entourage: ma davvero uno sportivo può essere a tal punto ignaro, all’oscuro di quanto accade attorno a lui o all’interno del suo staff?
Quindici anni fa forse si poteva pensare che un giovane atleta potesse ignorare quanto stesse avendo luogo alle sue spalle, ma nel 2013 questo non è più pensabile. Il fenomeno doping è talmente conosciuto che è impossibile non sapere o far finta di farlo e, addirittura, nell’ultimo periodo stiamo assistendo a delle dinamiche diverse dal solito: Alex Schwazer, per esempio, si è autoaccusato anziché accusare, assumendosi in maniera non credibile tutta la responsabilità. Questo evidenzia come siamo in una fase molto vile dell’evoluzione di questo cancro nel sistema, perché i responsabili sono diventati molto accorti, più capaci di smarcarsi dal problema, lasciando l’atleta solo e intrappolato nella sua stessa morsa. D’altra parte, che butti la colpa sugli altri o se la assuma in toto, che venga trovato positivo immediatamente o scoperto al termine di un’ analisi giudiziaria, è lui stesso la pietra miliare dello scandalo. E le ripercussioni sono totali, in termini di mancati guadagni, di restituzione degli allori, di crisi di coscienza e di autostima, anche per l’amore del pubblico, fittizio e legato ai risultati, che inevitabilmente viene a mancare. Dunque lo sportivo è al tempo stesso il colpevole, che deve riconoscere le proprie responsabilità senza giocare allo scaricabarile, e la vittima, sottoposta alle pressioni di un ambiente che si aspetta con certezza la realizzazione della performance sportiva, anche a costo di avvicinarsi e ricorrere a quelli che non sono altro che veri e propri trattamenti farmacologici.
Eppure la piaga del doping sembra riguardare sempre i soliti 3-4 sport, quasi fosse la condicio sine qua non per trionfare in talune discipline, mentre altrove apparentemente è sempre la lealtà a farla da padrona . Ma è davvero così? Il problema è circoscritto solo a poche specialità “guaste”?
Assolutamente no. Come prima cosa, dobbiamo fare un ragionamento sul valore economico del singolo atleta e sull’indotto che ruota attorno alla sua figura. Maggiore è questa proporzione, più diventa improbo l’accertamento delle eventuali responsabilità, nei confronti dello stesso, legate all’utilizzo di sostanze dopanti. Teniamo conto, ad esempio, che alcuni dei maggiori calciatori professionisti valgono economicamente come tutti i laboratori antidoping del mondo messi insieme e quindi, se volessero, li potrebbero pure acquistare senza troppa difficoltà. La differenza tra ciò che dovrebbe essere fatto e ciò che viene realmente portato a termine genera quindi un patteggiamento strisciante tra i club e le federazioni, un gentlemen’s agreement che prevede controlli fittizi o sui soggetti considerati “sicuri” nello specifico match. Ma questo perché il calcio è lo sport economicamente più influente del pianeta: Il problema non è relativo alle specialità, ma al sistema stesso di prevenzione del doping, che dovrebbe avvenire attraverso un controllore esterno in grado di garantirne la veridicità e di operare nell’ambito della prevenzione. Lo strumento perfetto in questo senso è il “Passaporto Biologico”, un monitor per tenere realmente sorvegliati i valori dell’atleta, intervenendo concretamente, tempestivamente e in piena trasparenza in caso di anomalie e contribuendo sensibilmente, attraverso pratiche deterrenti, ad estirpare il cancro della slealtà. Il tutto con benefici essenziali in prima istanza per gli atleti stessi, che sarebbero più protetti, meno a rischio di sperimentazioni farmacologiche del tutto sconsiderate.
Oltretutto negli ultimi anni sono emersi diversi casi, quantomeno sospetti, di atleti impegnati negli anni ’70-’80 colpiti dalla terribile Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA), probabile conseguenza dell’ “età d’oro” dei farmaci nello sport già in quei decenni.
Il tema è già stato ampiamente illustrato dagli ex grandi calciatori, ora scomparsi, Ferruccio Mazzola e Carlo Petrini, che hanno affermato e sostenuto in maniera inequivocabile come il doping fosse diffuso in maniera massiccia fin dai primi anni ’60, in particolare attraverso l’abuso di stimolanti.
Nel sistema sportivo i furbi ci sono sempre stati, quel che è peggio è che la maggior parte di loro albergano tuttora nei piani alti delle federazioni internazionali. Sono “medagliari”, raccattatori di medaglie. Appena la farmacopea si è fatta più sofisticata e dagli stimolanti si è passati agli ormoni, loro ci si sono buttati a capofitto. Uno studio recente di un’istituzione scientifica canadese, dopo alcuni test su dei topi da laboratorio, ha dimostrato che l’effetto del testosterone e degli anabolizzanti resta a distanza di 20 anni, quindi nella realtà si tratta né più né meno di una sorta di mutazione genetica.
Ma in tutto questo, l’Agenzia Mondiale Antidoping (WADA), con cui lei collabora, non si sente in qualche modo impotente?
La WADA è una di quelle istituzioni alla quali noi tutti come cittadini deleghiamo l’assolvimento di un determinato compito, ma il caso specifico dimostra come questo sia tutt’altro che facile. L’azione dell’organismo può risultare efficace qualora i governi lo supportino fattivamente, anche dal punto di vista finanziario. Peccato che mentre il CIO (Comitato Olimpico Internazionale) fornisca regolarmente la sua parte di finanziamento annuale, le massime istituzioni di ciascun paese – che si erano impegnate, con il Trattato di Losanna del 1999, a co-finanziare l’Agenzia – spesso si scordino completamente della loro quota. La disattenzione e l’attuale crisi politica ed economica ha portato i politici a disimpegnarsi su tutti i fronti nei confronti della WADA, che così rischia di essere nuovamente risucchiata dalla forza di gravità del sistema sportivo. Se prima la posizione forte dei governi la poteva mantenere in punto equidistante e rafforzarne i punti di neutralità e autorità, il rischio è che ora l’istituzione torni ad essere appendice del sistema sportivo, una lobby controllata, puramente di apparenza. Il pericolo è reale, stiamo vivendo una fase di transizione. Quanto al mio ruolo nell’Agenzia, cerco di essere in prima linea anche rispetto alle limitazioni, ai condizionamenti che essa subisce da parte del sistema sportivo.
E in Italia? Anche qui la WADA è lasciata sola?
Certamente. L’esempio è calzante: l’organizzazione ha elaborato un codice mondiale antidoping, contenente fra gli altri dettami anche l’invito ai governi e ai sistemi sportivi dei diversi paesi di cooperare per dare vita ad un’agenzia antidoping autonoma in ciascuna nazione, distinta dal sistema sportivo e che possa fungere da organismo esterno. Solo che in Italia l’agenzia antidoping si chiama CONI-NADO ed è evidentemente legata a doppia mandata al Comitato Olimpico Nazionale Italiano, che è stato capace di sfruttare la propria potenza lobbistica presso il Parlamento, ottenendo l’avallo come agenzia antidoping del paese. Di conseguenza la WADA si è ritrovata con la strada sbarrata dalle decisioni delle istituzioni sovrane nel nostro paese. Quel che è peggio è che i governi di diversa colorazione politica non soltanto hanno impedito che la WADA potesse disporre in Italia di un’agenzia autonoma, ma hanno pure fatto sì fosse disatteso un obbligo di legge. La norma italiana antidoping prevedeva, entro 180 giorni dalla sua promulgazione, il passaggio di tutte le attività legate al controllo e alla prevenzione del fenomeno sotto la potestà del Ministero della Salute. Peccato da allora siano passati 12 anni e mezzo e i controlli sugli atleti di alto livello continuino ad essere eseguiti sotto l’egida del CONI.
Che il problema sia reale e sentito lo dimostrano i numeri del suo “tour” in giro per l’Italia: conferenze programmate sino al prossimo marzo, più di 20.000 copie vendute e sei ristampe del suo ultimo libro, “Lo Sport del Doping”, a 23 anni di distanza dal primo saggio sul tema, “Campioni senza Valore”. L’opinione pubblica sente che qualcosa deve cambiare.
C’è una reazione in atto, non si può pensare diventi subito veloce e potente, ma si è messo in moto un meccanismo che fino a pochi anni fa non esisteva. Io stesso non volevo scrivere questi due libri sul doping, quello del 1989 avrebbe dovuto essere l’ultimo, perché denunciavo cose che dovevano mettere in guardia pubblico e addetti ai lavori, e che invece sono state ignorate. È stato Don Ciotti, presidente di Libera, a spingermi a scrivere il secondo libro; a ragione, perché la risposta è stata a dir poco sorprendente. Credo sia la dimostrazione della preoccupazione, della paura per i bambini e giovani impegnati nell’attività sportiva, il che denota una voglia di reagire, ed era ora. Bisogna agire prima di tutto a livello scolastico, coinvolgere per primi gli insegnanti con materiali didattici ad hoc. Da qui, la mia collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità ha portato alla realizzazione di dispense, appunti, opuscoli sul tema per gli studenti delle scuole primarie e secondarie. Perché la prevenzione deve partire dal basso, dai più piccoli, dai soggetti più sensibili. Quelli che hanno a cuore uno sport senza doping, pulito così come semplicemente e in natura dovrebbe essere.