La furia dello Yemen
Lo scorso giovedì un attentato al Ministero della difesa ha scosso la capitale yemenita. Da allora Sana’a vive giorni di impetuosità e caos: proseguono gli attentati, gli scontri, la violenza
di Martina Martelloni
Fuoco contro fuoco, uomini contro altri uomini, la guerra interna tra fazioni di fede contrastanti torna a far piangere vittime nello Yemen. L’esplosione dell’autobomba all’ingresso del palazzo del Ministero della Difesa, oltre all’elevato numero di cittadini che hanno perso la vita (52), ci ha di nuovo risucchiati in quel vortice di instabilità interna al Paese che il mondo ha troppe volte ignorato.
Gli equilibri dello Yemen sono fragili e invisibili e vanno ricercati nelle profonde radici sociali, politiche e religiose dell’area geografica in generale e dello Stato in particolare.
Le coste sud dello Yemen si affacciano sul Golfo di Aden, bagnate dall’Oceano Indiano e dal Mar Rosso, a nord il Paese guarda la terra sabbiosa dell’Arabia Saudita e ad est quella dell’Oman. Da sempre, caratteristica primordiale della regione yemenita, è la marcata tribalità di partito. Persistono delle forti strutture clanico-tribali che condizionano la vita politica, la quale lamenta l’assenza incisiva di uno Stato forte.
La storia parla di divisioni e contraddizioni tra due anime distinte: quella di Sana’a e quella di Aden. La prima si colloca geograficamente nel Sud del paese, l’altra si rispecchia nel Nord tradizionalista. Nel 1990 avvenne la fusione dello Yemen del Nord e di quello del Sud, iniziò così un nuovo percorso storico dominato dalla figura di Alì Abdullah Saleh. Il potere nelle mani di quest’uomo fu saldo e stabile grazie alla sua capacità di far leva sul sostegno assicurato da alcune influenti tribù ed importanti clan.
Saleh non fu mai rispettato ed amato dalla totalità del suo popolo; i capi tribali delle regioni più periferiche delegittimavano la sua autorità. Questo scenario fu reso ancora più complesso dalle correnti secessioniste che iniziarono una dura opposizione al potere centrale. Il regime di Saleh si trovò di fronte diversi nemici da dover fronteggiare: i dissidenti dello Yemen del Sud ed i ribelli zaiditi (gruppo sciita presenti nella regione Sa’dah).
Lo scontro centrale e diretto vedeva da un lato proprio i ribelli zaiditi sostenuti dall’Iran sciita e dall’altro il governo di Sana’a supportato dalla confinante monarchia saudita.
Altro fattore ed elemento di cruenta instabilità interna è rappresentato dal radicalismo islamico legato sia ai movimenti salafiti che alla Fratellanza Musulmana nonché la temuta infiltrazione di correnti fondamentaliste con al vertice l’organizzazione di Al-Qaida.
Anno di rivoluzione, il 2011 ha portato alle dimissioni del presidente Saleh. Pochi mesi dopo, attraverso elezioni presidenziali, nuova guida del Paese venne eletta nel nome di Mansur al Hadi. Sulla sua figura, vige l’ombra delle pressioni internazionali e soprattutto dell’Arabia Saudita, preoccupata per la crescente influenza dell’Iran, sostenitrice della minoranza sciita.
Quest’ultima settimana di violenze, ripone ai nostri occhi la realtà nuda e cruda dello Yemen, sempre più vicino alla dicotomia di “failed state”. L’attentato al Ministero della Difesa porta le impronte di Al Qaida, obiettivo finale è la presa del potere e dei loro centri propulsori.
Nonostante i tentativi di rassicurazione provenienti dalle voci del governo, la guerriglia e la diversità interna può far rinascere ostilità mai superate nel Paese da quell’unione di regioni tutt’ora rinnegata dalle tribù dissidenti e dai partiti politici conflittuali e rappresentativi dello scontento popolare.