“Di Matteo non deve morire”
Il “capo dei capi” dal carcere ordina a Cosa Nostra di dare inizio a una nuova stagione stragista minacciando i PM Nino Di Matteo, Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene, magistrati che con coraggio continuano la loro battaglia per la verità sulla “trattativa” e che per questo, ogni giorno di più, rischiano la vita
di Guglielmo Sano
“Quello era venuto per vedere i tonni e io gli ho fatto fare la fine del tonno […] a questo ci devo far fare la stessa fine degli altri, come quella del tonno”: nella vulgata giornalistica di questi tempi – le parole riportate si riferiscono a intercettazioni ambientali di metà Novembre – rappresentano l’inizio dello pseudo-caso delle cosiddette “minacce di Riina al PM Nino Di Matteo e al pool di Palermo”.
Invece, come ha rilevato il magistrato stesso, queste parole non sono solo “minacce”: sono un vero e proprio “ordine di uccidere”, e di uccidere in modo “eclatante”. Solo un atteggiamento di evidente sottovalutazione, o peggio di sofisticazione, può portare a definire parole del genere, dette da un personaggio in particolare, in un altrettanto particolare contesto, delle “minacce”.
Non è difficile tradurre le frasi di Salvatore Riina – pluriergastolano tuttora a capo di Cosa Nostra anche se recluso nel carcere di Opera a Milano in regime di 41bis – e andare oltre il linguaggio, solo in apparenza “semplice”, usato dal vecchio ma redivivo boss corleonese: Falcone che, prima di subire l’attentato di Capaci si era recato a Favignana per assistere alla Mattanza che si svolge sull’isola in Estate, è il “tonno” per cui Riina organizzò l’attentato in stile “militare” sull’autostrada che dall’Aeroporto di Punta Raisi porta al capoluogo siciliano.
Dire che a Di Matteo e agli altri PM – poiché “mi stanno facendo impazzire” – vuoi far fare la fine dei “tonni” significa una cosa e una cosa soltanto: “chiamata alle armi”, parole usate anche da Francesco Messineo capo della Procura di Palermo, per gli uomini di Cosa Nostra e inizio della fase di organizzazione di un attentato “stile Capaci”, in primis, contro il Pm Di Matteo – dopo l’uscita dalla Procura di Ingroia, è il magistrato che da più tempo indaga sui fatti che portarono alla fine delle stragi e alla “pax mafiosa” – che “tanto ci deve venire al processo”.
Risposta dello Stato a una situazione talmente grave da essere facilmente paragonabile a quella che portò alle stragi dei primi anni ‘90? Delegittimazione dell’operato del pool di Palermo, isolamento e neanche tanto velato “contrasto” istituzionale. Insomma lo stesso trattamento riservato ai “tonni” morti nel ’92. Per andare oltre alla retorica antimafia istituzionale, basta ripercorrere le ultime tappe della vicenda.
Di Matteo viene a sapere che “per lui è tutto pronto” dallo stesso Riina, il 13 e il 14 Novembre: allora il Procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari, e quello di Palermo, Roberto Scarpinato, attraverso un “eccezionale” strumento garantito ai magistrati dalla Costituzione, “desecretano” le intercettazioni di Riina e le fanno recapitare al Viminale. A quel punto Alfano che, già ministro della Giustizia dell’ultimo governo Berlusconi non aveva mai fatto mancare le proprie “critiche” ai magistrati di Palermo e Caltanissetta che indagavano sui rapporti tra Istituzioni e Mafia, dichiara che “il regime carcerario di 41bis si può inasprire” e che la protezione di Di Matteo salirà di livello.
Alla scorta, già di livello massimo, di Di Matteo doveva quindi essere assegnato un particolare macchinario chiamato “bomb jammer”, che riesce a neutralizzare in una certa area gli impulsi elettrici – per esempio quelli dei telecomandi usati per far brillare gli ordigni esplosivi, già in dotazione a chi protegge il Presidente della Repubblica, quello del Consiglio e il Papa. In seguito al Ministero fanno sapere che ancora devono essere effettuati i test sulla pericolosità dello strumento: a tal proposito qualcuno fa notare che, quando Berlusconi andava al Tribunale di Milano, i cellulari non funzionavano, forse proprio a causa del “bomb jammer”. Forse è una strana coincidenza o forse non si vuole totalmente garantire la sicurezza del PM.
Nel frattempo il processo sulla “trattativa” si sposta a Milano, per le deposizioni del pentito Giovanni Brusca. Questa volta Di Matteo resta a casa, proprio per garantirne l’incolumità. Forse troppo facile dire “per ostacolarne il lavoro”. A chi gli propone di spostarsi su un blindato “Lince”, quello usato dal nostro contingente in Afghanistan per intenderci, tra le strade di Palermo risponde: “Sarebbe difficile sotto il profilo operativo, ma soprattutto sentirei il mio lavoro messo in ridicolo e questo non posso accettarlo”.
Inoltre non risulta che le scorte degli altri PM titolari dell’inchiesta “Stato-mafia”, Teresi, Tartaglia e Del Bene, abbiano ricevuto un adeguato rinforzo – neanche quella di Scarpinato, che nell’ultimo procedimento (condotto dalla Procura di Caltanissetta) su “Capaci” ha ancor di più puntato il dito sulle responsabilità corleonesi, è stata adeguata al momento.
In questi giorni una delegazione del Consiglio Superiore della Magistratura si è recato in visita a Palermo, sembrava nella normalità delle cose un incontro con i magistrati in pericolo. Nessuno, invece, li ha convocati e la solidarietà è stata espressa “in contumacia”. Almeno il Procuratore Generale della Cassazione ha prosciolto Nino Di Matteo, dall’accusa di aver diffuso, in un’intervista a La Repubblica del 2012, le notizie riservate sulla presenza negli atti d’indagine sulla “trattativa” di alcune telefonate tra Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, e che gli sarebbe costata, se confermata, un provvedimento disciplinare.
Questi sono solo gli ultimi eventi di una lunga serie di strane coincidenze accadute negliultimi 15 mesi. Prima a Di Matteo vennero fatte trovare 12 pagine, con tanto di simbolo della Repubblica, intitolate “protocollo fantasma” nella quali, presumibilmente un appartenente alle forze dell’ordine o comunque alle istituzioni, gli faceva sapere che tutti gli ambienti in cui si recava e tutte le telecomunicazioni che intratteneva erano tenute sotto controllo. Poi giunse il momento delle minacce in stile “mafioso” contenute in una lettera che faceva riferimento a “certi amici romani”, del Boss latitante Matteo Messina Denaro, che stavano preparandosi a “fargli le feste”.
Solo la Mafia è contro il Pool di Palermo o insieme a essa c’è qualcosa di più? Molti pensano a un coinvolgimento dei servizi segreti negli strani eventi che sono capitati ai magistrati di Palermo: per esempio nell’intrusione in casa del magistrato Roberto Tartaglia per rubare una chiavetta USB contenente importanti documenti relativi alle indagini, ma anche sulla fuoriuscita delle dichiarazioni di Riina di Novembre.
Non era mai trapelato niente prima che a questi venisse assegnato come “dama di compagnia” – è chiamato così in gergo carcerario il compagno delle 2 ore d’aria di un condannato al “carcere duro” – Salvatore Lorusso, in teoria boss della Sacra Corona Unita – ma, per Messineo e Teresi potrebbe trattarsi di un infiltrato dei servizi.
Se fosse così bisognerebbe cominciare a domandarsi se le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Onorato, che hanno reso bollente il processo sulla “trattativa” anche per le dichiarazioni su Andreotti e Craxi “mandanti” dell’omicidio Dalla Chiesa, non abbiano determinato l’innalzamento del livello dello scontro. Se fosse così, anche questa volta, bisognerebbe domandarsi se contro i magistrati di Palermo ci sia solo la Mafia o anche quelle “menti raffinatissime” di cui già parlava Falcone ai tempi del fallito attentato contro di lui all’Addaura.