Pippo Fava: molto di più che un giornalista
Sono passati 30 anni da quel terribile 5 Gennaio in cui Pippo Fava veniva ucciso nei pressi del Teatro Stabile di Catania. Da allora la mafia è cambiata, l’Italia è cambiata e si è trasformata in un paese che non piacerebbe al fondatore de “I Siciliani”. Nonostante sia difficile dimenticare l’impegno e l’esempio, ancora enormemente attuale, di un uomo che era qualcosa di più di un giornalista
di Guglielmo Sano
Giuseppe Fava era un giornalista ed era un giornalista “di razza”, ma non era solo questo, era un po’ di più di questo: infatti soltanto 5 colpi di pistola alla nuca – sparati contro un uomo disarmato, colpendolo alle spalle, come solo un potere laido e vigliacco sa fare – l’hanno potuto fermare, la sera del 5 Gennaio 1984, davanti al teatro Stabile di Catania, mentre aspettava la nipotina che aveva recitato in “Pensaci, Giacomino!”.
Non era solo un giornalista “Pippo” Fava perché era, per dirla brevemente quanto semplicisticamente, un “intellettuale a tutto tondo” – e nel suo caso la parola “intellettuale” è da intendere con tutta la valenza positiva che è possibile conferirle. Lontano dai circoli “bene” del capoluogo etneo, abitati da “benpensanti” e “uomini probi” tradizionalmente conniventi e collusi con “amici e amici degli amici”, voleva restare “sulla strada” e soprattutto con gli uomini “della strada”.
La città sembrò apparentemente non reagire all’omicidio di Fava, compiuto dal Killer di Nitto Santapaola, ora “pentito”, Maurizio Avola. Soltanto in apparenza tutto restò uguale a prima: subito dopo il suo omicidio, i ragazzi delle scuole si adoperarono per la diffusione del giornale fondato da Fava – tra l’altro furono i ragazzi di un liceo a porre la prima rudimentale “targa” nella strada che ora prende il suo nome – persino tutto lo Stadio Massimino con profondo rispetto osservò un minuto di silenzio in suo onore. Per il primo anniversario della sua scomparsa in migliaia scesero in piazza contro la mafia. La battaglia cominciata con quei 5 colpi di pistola era appena cominciata.
I calici, con cui qualcuno aveva brindato alla morte del “nemico”, andarono tutti di traverso e Pippo Fava continuò a dare più fastidio di quando era vivo. Ci provarono a trasformare la “vittima” in “carnefice”: “fimminaru”, “puppo”, correva dietro alle gonnelle, dava noia ai ragazzini, aveva debiti di gioco. Come ancora succede qualche volta, i “colleghi giornalisti” e gli inquirenti gridavano al “cherchez la femme” ovvero alla ricerca di un millantato movente “passionale” che sempre copre gli assassini mafiosi e i loro mandanti. Per settimane la Guardia di Finanza esaminò il suo patrimonio e i conti della sua famiglia – avvalendosi della legge anti-mafia che prende il nome di Pio La Torre – cercando qualsiasi cosa potesse delegittimarlo.
Pippo Fava era un giornalista che sapeva fare il suo mestiere: non correva dietro alle gonnelle ma ai fatti e alle notizie. Aveva un intuito e un‘intelligenza tale che persino il collaboratore di giustizia Angelo Siino, “ragioniere” di Riina e faccendiere non organico a Cosa Nostra – al quale però venne dato mandato di distribuire i soldi degli appalti pubblici siciliani tra gli anni ‘70 e ‘80 – leggendo “I Siciliani” si stupiva sempre della sua conoscenza degli intrecci economico-politico-mafiosi.
Pippo Fava era testimone attento dei cambiamenti interni a Cosa Nostra: in particolare del cambiamento che, dalla Mafia dei “grandi vecchi” come Genco Russo, “palermitana”, agraria e locale, stava portando a una Cosa Nostra “policentrica” dove i Corleonesi non mancavano di appoggiare le famiglie catanesi e gli imprenditori da queste sponsorizzati. Fava era attento cronista di quella “nuova geografia del potere mafioso senza la quale gli imprenditori catanesi non potrebbero prendere appalti a Palermo” per dirla con Dalla Chiesa.
L’esperienza de I Siciliani, infatti, si aprì con l’inchiesta sui “quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”: Finocchiaro, Costanzo, Rendo e Graci. Quest’ultimo, suo ex editore ai tempi de Il Giornale del Sud e che ancora doveva pagarlo, pochi giorni prima dell’attentato, come regalo di capodanno, gli inviò una quantità spropositata di ricotta e una cassa di champagne: quasi un avvertimento, “ti ridurremo come una “ricotta” e brinderemo alla tua salute”.
Graci, uno di quegli “invulnerabili” che assistettero e applaudirono ironicamente allo spettacolo di Fava “L’Ultima Violenza” – andato in scena proprio in quel teatro, davanti al quale, “il direttore” troverà la morte, nel Novembre 1983 – che parlava proprio di lui e degli altri “cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, è probabilmente il vero mandante dell’omicidio eseguito dagli uomini di Santapaola. Potevano tutto a Catania questi assassini spregiudicati e astuti, la famiglia Rendo ancora oggi è potente e possiede svariati giornali in Ungheria, non potevano permettere che un uomo come Fava rimanesse vivo.
Pippo Fava denunciava “piccole e grandi trattative” quando Nino Drago, andreottiano di ferro e uomo di governo, pochi giorni dopo l’omicidio del giornalista guardando dritto verso la telecamera diceva: “a Catania la Mafia non esiste e stiamo attenti perché se continuiamo a parlare di mafia i miei amici cavalieri prendono le loro aziende e le portano da qualche altra parte”. Pippo Fava – quando ancora la Mafia a Catania, in Sicilia, in Italia, “non esisteva” – andava in televisione ad annunciare che “i mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono Ministri, i mafiosi stanno ai vertici della nazione”.
Fu ucciso per queste parole rilasciate circa una settimana prima di morire, Fava? Anche per queste parole, sicuramente portatrici di una verità scottante e di un’attualità che disarma chi le ascolta, ancora oggi, oggi più che mai, ma che sono solo un minimo aspetto del lavoro di Pippo Fava che non era solo un giornalista, ma era un po’ di più di questo.
Alla mafia militare e di “governo” facevano paura le precise e puntuali analisi giornalistiche di Fava – che anticipò il pool di Palermo evidenziando l’importanza del contrasto al traffico di droga, intuendo che l’indagine sulle transazioni bancarie e finanziarie poteva davvero portare alla sconfitta del “potere mafioso” – ma fu ben altro a condannare a morte Fava. Alla mafia, a tutti i livelli, fai paura quando i fatti e le cifre, i traffici e gli accordi passano dalla cronaca al “racconto”.
La “mafia in senso ampio”, Fava non soltanto la descriveva come ogni giornalista degno di questo nome sa fare: la raccontava al teatro, al cinema, consentendo ai più giovani e ai più “poveri” – entrambe categorie di approvvigionamento di manodopera e di consenso per i mafiosi – di vedere la propria vita come attraverso uno specchio, così da scoprire il lato crudele, malvagio, ipocrita, volgare e tragi-comico di quegli uomini che prima venivano invidiati e rispettati: perché facevano paura, perché promuovevano anti-valori come valori reali, cioè esistenti a prescindere da essi ma di cui si volevano proporre come perfetta espressione.
“Nella cronaca” tutte le associazioni criminali sono a loro agio: un fatto dietro l’altro, senza interpretazione, senza introspezione, sembra che qualcosa sia per sempre e che sempre sia stato così. Fava era un intellettuale “totale”, “etico” ma pratico e tutto questo lo sapeva: oltre che nei suoi articoli di giornale, raccontava la storia di un popolo che “da 30 secoli combatte la mafia” narrandone la storia contradditoria e amara: “noi siciliani siamo tutti in partenza mafiosi, perché la mafia fa parte della nostra cultura, come presupposto umano la mafia ce la portiamo dentro da 3000 anni perché da 3000 anni siamo una popolazione senza Stato”.
Era di una raffinatezza che non è possibile descrivere, Pippo Fava: mai una caduta di stile, estremo coraggio senza spavalderia in un mondo di “vasi di coccio”. Con queste parole si rivolgeva ai ragazzi delle scuole di Palazzolo Acreide nel 1983: “voi dovete lottare uscendo già oggi da questo teatro, andando in mezzo alla strada, lottare, non gridando nei cortei e nelle manifestazioni, ma cercando di essere “Uomini”, cercando di essere “umani” con intatta la vostra dignità, senza prostituirvi mai a nessuno, cercando di decidere liberamente le vostre scelte politiche, cercando di mandare in Parlamento o nei posti di potere, le persone di cui siete sicuramente certi, sulla cui onestà potete giurare, sulla cui sensibilità umana potete essere certi”.
Per poi aggiungere: “la mafia non potrebbe esistere senza i suoi “piccoli” soldati, se io in mezzo a una massa di diseredati dico “gli do 10 milioni a chi mi ammazza un uomo” io ne trovo 5000, 10000 […] bisogna lottare per una società in cui non ci siano miserabili, in cui non ci siano poveri, in cui non ci sia nessuno costretto ad emigrare per la disperazione, bisogna lottare per migliorare la nostra società, abbiamo la necessità di una grande opera che coinvolga tutta la nazione per dare giustizia sociale al paese, dare giustizia sociale al Meridione, alla Sicilia dove vive la metà del paese più infelice e per fare questo bisogna che voi lottiate perché in questa repubblica ci sia giustizia per i poveri, per gli emarginati, per tutti, per noi stessi, allora potremo sconfiggere la mafia ed essere sicuri di avere la nostra dignità e di essere uomini liberi”
Era il 1983, la mafia ancora “non esisteva”. Ricordiamocelo, così potremo capire che Pippo Fava non era solo un giornalista, ma qualcosa di più.