Incontri con cinquanta registi contemporanei per un "Atlante Sentimentale del Cinema"
Abbiamo letto il nuovo volume edito da Derive Approdi, un Atlante sentimentale e flaneuristico che segna una nuova tappa per la critica italiana e una nuova prospettiva sul panorama del cinema autoriale contemporaneo
di Giulia Marras
Nella storia del cinema alcune tappe decisive sono state segnate anche dalla pubblicazione di testi fondamentali per una svolta critica, analitica e interpretativa del mezzo filmico. A partire dal caposaldo di André Bazin Che cos’è il cinema, passando per Gilles Deleuze e i suoi L’immagine-tempo e Immagine-movimento e poi i vari Christian Metz, Raymond Bellour, Jacques Aumont o Daivd Bordwell, mentre in Italia le riflessioni sul linguaggio e sugli autori partono dagli stessi Pasolini e Eco arrivando all’analisi testuale di Francesco Casetti e il lavoro di interpretazione, lynchiana soprattutto, di Paolo Bertetto, solo per fare degli esempi.
Ciò che forse mancava, almeno a livello critico-letterario, era una panoramica su un cinema a latere, altro, quello che riflette su se stesso e non smette di interrogarsi; un cinema però abbandonato, relegato alle ore piccole di Fuori Orario cose (mai) viste.
Ed è proprio da Fuori Orario che proviene uno dei due autori dell’importantissimo volume Atlante Sentimentale del cinema del XXI secolo (Derive Approdi Edizioni), Donatello Fumarola, che insieme ad Alberto Momo, hanno intrapreso un viaggio lungo oltre 15 anni tra Festival (Taormina, Venezia, o Torino), inseguimenti dei registi più inavvicinabili e incontri quasi casuali. L’Atlante è composto così da una serie di interviste (50) a registi ai margini dell’industria, ma rivoluzionari del linguaggio. Le loro conversazioni sono come “porti di mare” come le auto-definiscono gli autori: scambi di pensieri e di persone che intervengono e scompaiono improvvisamente, dove l’intervistato diventa l’intervistatore, e viceversa.
Parole, utopie e ritratti inediti, che possono essere letti anche da estranei del cinema di un tale o altro regista: gli intervistatori cercano di ripercorrere la filmografia di ognuno, ma nella maggior parte dei casi, gli intervistati sfuggono, in parte a causa della domanda baziniana che permea tutto il libro, “che cos’è il cinema”, in parte perché i film rispetto ai loro autori divengono quasi autonomi, parlano da sé; assumono degli strati di significato dati dal passare del tempo e dagli sguardi degli spettatori.
Tra le interviste ricorre un mistero dell’immagine cinematografica a cui nessuno dei registi, seppur dall’alto delle loro intense esperienze, riesce a dare delle spiegazioni definitive, e probabilmente neanche lo vogliono. Così per Werner Herzog il cinema è un’esperienza fisica, per Raoul Ruiz è un linguaggio fatto di soli verbi (e “i verbi fanno come vogliono”), per Monte Hellman è una connessione tra movimento ed emozione, per Aleksandr Sokurov è ancora secondario rispetto alla letteratura, per Aki Kaurismaki è una via di fuga dal mondo, Lav Diaz ancora non ha capito cos’è. Ma nessuna posizione è alla fine irremovibile, e lo stuzzicare delle domande, dei paragoni, e delle curiosità degli intervistatori fanno sorgere dubbi, dilemmi e silenzi di fronte all’immagine di un cinema che non si può mai inquadrare.
L’Atlante Sentimentale è una preziosa meditazione sull’atto del girare un film e sull’atto del vedere, ma non solo. Può nascondere in sé scorci del lontano (grazie agli approfondimenti sul cinema filippino hongkonghese), saperi tecnici e pratici per la produzione del film, e aneddoti inconsapevoli, quasi inconsci sulle personalità o sul lavoro di ogni singolo regista: per fare qualche esempio, Garrel durante l’intervista è continuamente disturbato e distratto da rumori acusmatici (portando il lettore a chiedere se non siano inventati), Kaurismaki ammette di avere un direttore della fotografia daltonico, e Lynch racconta della prima volta che sentì in macchina, durante una nevicata tedesca, il brano di Strauss, Im Abendrot, poi inserito in Cuore Selvaggio, “non so se piansi, forse sì”.
E intanto, durante ogni conversazione si avvertono aleggiare i fantasmi di registi monumentali come quelli di Bresson, Ozu, Rossellini, e sicuramente Kubrick su tutti. Maestri imponenti che, proprio come fantasmi, spaventano, ma rimarranno per sempre nel castello del cinema.
E poi in mezzo alle pagine, i deliri imperdibili di Enrico Ghezzi, il quale interviene durante certe interviste e infine diventa l’intervistato, tracciando una mappa, anch’essa senz’altro sentimentale, degli autori del cinema trattato dall’Atlante, il Cinéma Amateur, il visibile alternativo, “il cinema come possibilità di pensare. Come possibilità di fare altro dal cinema. (Enrico Ghezzi)”.
Conversazioni con:
Stan Brakhage, Takeshi Kitano, Kiyoshi Kurosawa, Naomi Kawase, Alberto Grifi, Amir Naderi, Julio Bressane, Atom Egoyan, Franco Maresco, Tsai Ming-liang, Béla Tarr, Lisandro Alonso, Paulo Rocha, Jia Zhang-ke, Werner Herzog, David Lynch, Shinya Tsukamoto, Raoul Ruiz, Hou Hsiao-hsien, Tonino De Bernardi, Quentin Tarantino, Monte Hellman, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Aleksandr Sokurov, Pedro Costa, Abel Ferrara, Johnnie To, Wai Ka-fai, Manoel de Oliveira, George Romero, Amos Gitai, Otar Iosseliani, Jean-Marie Straub, Philippe Garrel, Andrej Ujica, Frederick Wiseman, Goutam Ghose, Aki Kaurismaki, Lav Diaz, Roger Corman, Kira Muratova, Mohsen Makhmalbaf, Wang Bing, Želimir Žilnik, Enrico Ghezzi.
Una risposta
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