L'annosa “questione” Israelo-Palestinese
La ricerca di un accordo di pace e di un compromesso tra Israele e Palestina ha irrigidito nel corso degli anni le due compagini territoriali. I nuovi tentativi di dialogo mediati dagli USA producono parole di sola speranza
di Martina Martelloni
La cronologia dell’ormai pietrificata questione centrale del Grande Medio Oriente vede come punto di partenza quel lontano 1917 in cui l’allora Ministro degli Esteri britannico J. Balfour dichiarò l’apertura ed approvazione del suo governo all’insediamento di una national home in Palestina.
Da quel momento in poi lo scontro tra arabi ed ebrei non terminò mai, se non per brevi ed inefficaci parentesi. Dalla nascita dello Stato d’Israele nel (non troppo lontano) 1948, l’area geografica, fisica e politica della Palestina subì una trasformazione radicale e rigidamente imposta. Dietro la costituzione di Israele si mosse la mano dell’Onu, che con la risoluzione del 1947 dispose la divisione della Palestina in due Stati – uno arabo ed uno ebraico.
L’ira funesta del mondo arabo si scatenò per diversi anni e per diverse guerre contro la imponente offensiva israeliana, che nel 1967 occupò parti dell’Egitto (Sinai e Gaza), della Giordania (la Cisgiordania) e della Siria (le alture del Golan). Soltanto nel 1978 Israele firmò una pace con l’Egitto per il completo ritiro delle truppe israeliane dal Sinai e con un fermo riconoscimento dei legittimi diritti dei palestinesi e della loro autonomia.
Quest’ultimo punto ancor oggi ha faticato a realizzarsi. La demarcazione di confini dichiarati, legittimi ed etnicamente voluti costituisce la contesa storica tra due popoli, due governi, due territori che non riconoscono nell’ altro l’entità di Stato.
Gli ultimi tentativi di colloqui di pace mettono alle strette i massimi rappresentanti dei due governi – quello israeliano e quello palestinese. Visioni opposte che non sembrano volersi amalgamare. La proposta di Abu Mazen, leader dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese), è forte nel suo significato e nella sua stanca speranza di vedere la Palestina essere chiamata Stato dai vicini-occupanti Israeliani. Per far si che questo prenda vita, Abu Mazen chiede l’avvio di un graduale ritiro israeliano dalla Cisgiordania in cinque anni e lo stanziamento di una compagine militare marcata NATO – col fine ultimo di garantire sicurezza e protezione.
Libertà dall’occupazione israeliana, questa è la richiesta Palestinese, che addirittura prevede nel prossimo futuro la presenza di una sola forza di polizia e della totale assenza di esercito militare. Questo perché: “le forze NATO possono restare per lungo tempo, per tutto il tempo che vogliono ai confini orientali ed occidentali” – così ha riferito la guida dell’ANP durante una accurata intervista del New York Times.
Udite tali parole il potere politico israeliano ha scrollato le spalle ed alzato la voce contro una posizione definita “assurda”, che secondo la loro imprescindibile opinione, costringerebbe 400.000 coloni ad abbandonare le loro case – benché quelle case siano state costruite in terra araba, che dei “coloni” (è implicito nello stesso termo) hanno scavalcato per stanziare un dominio non riconosciuto dalla comunità internazionale.
La proposta di una Palestina smilitarizzata ma con l’attento e vigile occhio osservatore di forze sicurezza NATO spaventa il poderoso ed orgoglioso arsenale israeliano. Netanyahu non intende chiamare la Palestina con l’appellativo di Stato finche non saranno i palestinesi a fare per primi gli onori diplomatici ad un riconosciuto Stato di Israele.
Al centro del dialogo polemico si siedono gli Stati Uniti d’America, con il loro segretario di Stato John Kerry che tenta di farsi carico di una tessitura diplomatica intrigata ed annodata.
Oltre le trattative, i negoziati, i colloqui e gli incontri tra le alte cariche di Stato si estende la realtà pura e vera di una popolazione araba da un lato ed israeliana dall’altro. Le armi e gli strumenti di dominio non si limitano soltanto agli attacchi terroristici, alle bombe o raid sganciati su villaggi civili. Il tentativo di comando va al di là della pura essenza militare ed oggi prende forma e vita con i posti di blocco per le strade.
I palestinesi camminano a piedi ed ogni loro tragitto è monitorato, pedinato e controllato dai tanti, sparsi e dinamici posti di blocco presieduti da militari israeliani. Realtà ancor più grave e discriminante, la diversa possibilità di accesso all’acqua potabile tra le due popolazioni – con un rapporto di 1 a 10 a favore degli israeliani.
È chiaro che lo scenario futuro si prospetti incerto – come del resto avviene ed avvenne in quello odierno e in quello passato. Tutto ciò persisterà fino alla realizzazione di un desiderio che Palestina ed Israele paradossalmente condividono: chiamarsi e sentirsi chiamare Stato.