Soči(al) Network, Day 6: Jianrou Li e Steven Bradbury, risate a denti stretti
di Paolo Pappagallo
su Twitter @paul_parrot
“To do a Bradbury”. Rivivere la favola dai tratti cartooneschi di una delle medaglie d’oro olimpiche più celebri della storia dello short track, non fosse altro che per il filmato della finale di Salt Lake City 2002 commentato dalla Gialappa’s Band e diventato negli anni un cult in rete, vuol dire entrare addirittura nel campo delle espressioni gergali segnalate dai vocabolari d’inglese made in Australia.
Perché “fare un Bradbury” non significa semplicemente realizzare il sogno di una vita a qualsiasi livello, ma farlo in modo tanto clamoroso e inaspettato quanto condito da un’overdose di buona sorte ai confini del parossismo. Esattamente come il Bradbury in questione, Steven da Camden, alle porte di Sydney, il primo atleta dell’emisfero australe a conquistare un titolo olimpico invernale. E a raggiungerlo da ultra sfavorito grazie ad una gragnuola incredibile di squalifiche e cadute altrui, tra quarti e semifinali fino all’apoteotica finale, nella quale gli avversari scivolano all’unisono all’ultima curva e gli regalano successo e medaglia, dopo che l’aussie non aveva potuto far altro che osservarli mestamente da ultimissimo per tutto il corso della gara.
Dodici anni dopo i Giochi nello Utah, sempre nella 500 metri di short track ma questa volta nel campo delle quote rosa, al posto della chioma ossigenata di Bradbury troviamo il capello castano corto della cinese Li Jianrou, una che a Sochi neppure doveva esserci. Il passaporto per le sponde del Mar Nero gliel’ha “regalato” la leggendaria connazionale Wang Meng, campionessa del mondo in carica e detentrice del record olimpico e mondiale, 6 medaglie tra Torino 2006 e Vancouver 2010, bloccata alla vigilia dell’appuntamento più importante del quadriennio da un serio infortunio all’anca. La Li, per tutti, vale meno di un’unghia della propria compagna di squadra, ma viene imbarcata per Sochi per fare presenza e rimpolpare la pattuglia asiatica del ghiaccio, orfana della sua riconosciuta supernova.
Dopo il buon secondo posto nella batteria iniziale, il destino della cinese sembra segnato sin dai quarti. Ma ecco, inaspettato, materializzarsi progressivamente “l’effetto Bradbury”: prima il passaggio del turno, insieme alla nostra Arianna Fontana, in un super fotofinish con la canadese Maltais e la coreana Shim, poi lo sgarbo alle connazionali Liu e Fan, penalizzate da reciproche scorrettezze, che regala all’outsider un posto in finale. Ultimo atto che sarebbe già una strepitosa vittoria morale, se non fosse il remake perfetto della gara olimpica al maschile di più di due lustri prima: la Li è costantemente in coda al gruppo fino all’ultimo giro, quando la britannica Christie – poi squalificata – aggancia la Fontana, trascinando via l’azzurra che finisce per travolgere a sua volta la coreana Park. Risultato? “Ercolina” Li passa e va a vincere una medaglia d’oro che neanche il più irriverente dei bookmakers di qualunque nazionalità avrebbe pronosticato alla vigilia. “Oh yes, she did a Bradbury”.
E mentre, dall’altra parte del mondo, il buon Steven si destreggia tra la sua nuova carriera di pilota automobilistico e motivatore, ricordando però a tutti come la sua sia soprattutto una storia di riscatto, dopo drammatici infortuni all’arteria femorale e all’osso del collo, la storia della Jianrou riapre il dibattito tra abilità e fortuna in uno sport dinamico, complesso e in minima parte aleatorio come lo short track. “La prossima volta partecipo anch’io” disse Giorgio Gherarducci della Gialappa’s, a commento finale dell’impresa che trasformò Bradbury da atleta a verbo, da cartina di tornasole per la sfiga a effige buona per i francobolli nelle poste australiane.