La festa e l'attesa di una Libia sospesa
Mentre la piazza gioisce ed inneggia a suon di musica la rivoluzione cominciata tre anni fa, la situazione politica è in pieno stallo ed il caos sociale e militare continua a contaminare il Paese
di Martina Martelloni
Il 17 febbraio 2011 il regime di Muammar Gheddafi esplose in frantumi, come epilogo dell’intenso conflitto civile scoppiato dopo costanti scosse di proteste popolari. A tre anni dalla fine di un’epoca ovattata e soffocata sotto l’egida di un unico potere decisionale, il popolo libico ha colorato le strade di Tripoli manifestando ancora una volta il desiderio di realizzata liberazione.
La libertà però non si materializza con la sconfitta di un uomo, benché questo uomo abbia determinato e monopolizzato la vita del suo popolo per lunghi anni. Per far si che si possa cantar vittoria occorre costruire dal fondale più profondo un senso comune politico e sociale.
Di questo la Libia ne è consapevole, come è a conoscenza del peso specifico tenuto nelle mani delle milizie che ancora quotidianamente si affrontano faccia a faccia per la presa del potere. Sembrerà semplicistico e antropologicamente banale, ma la divisione sociale che prende forma nei gruppi militanti è sfogo di una radicata scissione tribale. 140 sono le tribù libiche divise su tutto il territorio ed in guerra tra loro, armate e spalleggiate dai ben più subdoli membri della politica.
Comprendere l’intreccio-matassa che coinvolge istituzioni e comunità richiede un chiarimento sull’attuale cerchia politica seduta a Palazzo.
Nell’immediato periodo post rivoluzione, le redini governative vennero affidate ad un Consiglio di Transizione Nazionale composto dai membri delle opposizioni libiche. Poi finalmente si andò a votare e, Ali Zeidan venne nominato dal nuovo parlamento Primo Ministro nel novembre 2012.
Questo nome ha risuonato nuovamente tra i media internazionali lo scorso ottobre, quando un gruppo di uomini armati ha rapito Zeidan. Soltanto dopo venne fuori la verità sull’accaduto: l’assalto non è stato un rapimento ma un “arresto” da parte delle milizie vicine al ministero dell’Interno. Motivo sbandierato dai combattenti armati, era l’accusa nei confronti del primo Ministro di aver autorizzato l’operazione firmata Usa nell’arresto di un presunto terrorista libico.
Tornando alle origini del caos, la difficile realtà economica e umana caratterizzante quei primi mesi e quel primo anno dalla morte di Gheddafi, costrinse il governo, fin troppo debole e vulnerabile, a chiedere soccorso ad alcune milizie per garantirsi il controllo e la sicurezza dell’intero vasto territorio.
Quando si assapora anche solo con un assaggio il gusto del potere, in pochi riescono a restarne immuni e questo non è cosa accaduta in Libia. La rivalità tra le milizie salite nei ranghi istituzionali si trasformò in breve tempo in contrapposizione partitica tra laici ed islamisti – reciprocamente specchio riflesso del ministero della Difesa e dell’Interno.
La piazza in festa attende ora la data del prossimo giovedì, quando si avvieranno le elezioni per la nascita della nuova Assemblea Costituente, la quale detiene il compito più difficile: stilare norme e diritti interni della Costituzione da sottoporre poi ad un referendum.
Aspettare in Libia, è verbo oramai da tre anni. Consolidato tra le case, le strade e le intere città. A non saper attendere e ad agire violentemente sono invece le milizie minacciose contro la sicurezza nazionale, forti del loro dominio sul territorio che si irradia fino a plasmarsi nel contrabbando di droga e di armi.