True Detective, la nuova rivelazione dei serial d'oltreoceano
Sta per concludersi in America la nuova serie dell’emittente americana HBO, osannata dalla critica e dal pubblico ed interpretata alla perfezione dal novello vincitore Oscar Matthew McConaughey e da Woody Harrelson. Dal genere poliziesco all’universale
di Giulia Marras
E’ ormai un decennio che la televisione (americana) ci ha abituati a un tipo di serials dalla qualità altissima, sia di regia che di scrittura. La linea di eccellenza tende quindi a raggiungere il livello cinematografico, che a sua volta invece si ritrova sempre più ad essere “a latere” rispetto allo streaming, alla possibilità della visione on demand e quindi ad una fruizione che esclude le sale, privilegiando la comodità del divano casalingo. In più bisogna aggiungere un’offerta autoriale limitata ai festival e alle piccole rassegne indipendenti (causa una distribuzione sempre meno azzardata e più prudente), mentre le sale vengono riempite da sequel infiniti e supereroi.
Così si sta verificando anche un fenomeno contrario alla consueta tendenza, che porta i nomi più fortunati e le rivelazioni della tv a passare al grande schermo, per cui ora i grandi del cinema sembrano interessarsi sempre più alla sperimentazione e alla libertà offerta dalla narrazione seriale di ultima generazione, soprattutto grazie a emittenti quali la Hbo, Amc, Showtime. Così abbiamo avuto Martin Scorsese come regista e produttore di Boardwalk Empire, Steven Soderbergh per il film tv Behind the Candelabra, Steven Spielberg come produttore di Falling Skies; e per loro hanno lavorato anche attori di alto calibro hollywodiano, Matt Damon, Michael Douglas, Steve Buscemi, solo per citarne alcuni.
Così orfani di Lost, Breaking Bad, i Soprano e The Wire, alcune delle serie più favorite dalla critica (e dell’esigente fascia di pubblico tra i 20 e i 40 anni) di sempre, arriva sempre su HB, True Detective, una serie composta da 8 episodi scritta e prodotta da Nic Pizzolatto, già autore di alcuni episodi di The Killing, e diretta dal regista Cary Fukunaga (Jane Eyre, 2011). Il soggetto sicuramente non è dei più originali: è la storia di due detective, partners da poco tempo, con caratteri e storie personali agli antipodi, alle prese con un’indagine sull’assassinio di una prostituta dalle tinte esoteriche, quasi sataniche. Ciò che rende magistrale e unica la serie tv, interpretata dagli ormai giganteschi Matthew McConaughey e Woody Harrelson, è lo scardinamento temporale che divide il racconto: l’arco narrativo comincia infatti nel 1995 e copre un periodo di tempo di 17 anni. Il presente è il 2012, quando i due protagonisti vengono interrogati separatamente da una nuova coppia di poliziotti, che riprendono la loro vecchia indagine; una differenza temporale scandita anche dal tipo di ripresa eseguita, in pellicola il passato, in digitale il presente.
I due diventano così narratori, e dal loro voice over alla Malick siamo riportati al passato, all’inizio della storia. Sono narratori inaffidabili, traditi dalla verità delle immagini; si articola uno scavare, sia materiale che psicologico, su diversi livelli temporali che si accavallano tra loro, mostrando le evoluzioni dei personaggi e dei loro rapporti, insistendo sulle ambiguità e le oscurità dell’uomo e delle sue azioni.
I protagonisti si scontrano, anche se nella solitudine si incontrano, arrivando a sostenersi l’un l’altro ora, e ferirsi dopo: il personaggio interpretato da McConaughey, fresco fresco di premio Oscar, Rust Cohle, pare essere uscito da un romanzo di McCarthy, è un uomo solitario, disilluso e traumatizzato da eventi passati, non mostrati ma completamente incorporati dalla mimica e dalla fisicità dell’attore texano, dall’approccio acuto ma nichilista verso ciò che lo circonda; Harrelson interpreta invece un medio padre di famiglia, Martin Hart, con uno stile di vita tradizionale ma ingabbiante, dal quale tenta goffamente di sfuggire. Il terzo protagonista non può che essere la Lousiana, dove True Detective è ambientato: il paesaggio industriale che fa da sfondo alle indagini, i grandi cieli e lunghe distese naturali, doppiano il vuoto e lo smarrimento esistenziale di chi abita e si muove in quegli spazi – come mostrato anche dalle sagome dei meravigliosi titoli di testa.
True Detective raramente dice ciò che mostra: le indagini sono pretesti, rappresentano le ossessioni per Cohle, e i mostri personali per Hart. Si parla invece di religione, con la dicotomia tra predicatori e santoni guida del popolo, e il rito violento dell’assassinio, quasi animista; tra l’ateismo convinto di Cohle e l’indifferenza agnostica di Hart. Si parla di famiglia, tra una sua completa assenza da una parte e la presenza scomoda dall’altra. Si parla di perdita e di morte.
Si può dire che True Detective sia la prima vera serie dalla qualità realmente cinematografica, soprattutto grazie a una continuità narrativa e stilistica mai vista prima in televisione. Tutti gli 8 episodi infatti sono stati scritti dallo stesso autore e girati dallo stesso regista, mentre la prassi comune consiste nell’affidare a mani e sguardi diversi ogni episodio, spesso con un risultato forzato e discontinuo. True Detective può essere considerato un’opera unica, un film a più parti. Con un piano-sequenza d’azione lungo sei minuti alla fine del quarto episodio, non può essere definito solo un serial televisivo.
True Detective, che si concluderà domenica 9 con il suo ultimo episodio, è già stato confermato per una seconda stagione, che avrà storie e protagonisti diversi (come succede anche per American Horror Story). Una seconda opera cinematografica, si spera.