Bianco: un viaggio fanta-realistico alla ricerca di se stessi
Il film di Roberto di Vito rappresenta con estremo simbolismo la solitudine e la paura di un ragazzo e le sue fughe immaginarie per colmare il vuoto della sua vita
di Francesca Britti
su Twitter @FBritti
Avete mai pensato al bianco come colore della solitudine e della paura? Se la risposta è no resterete sorpresi dal nuovo simbolismo conferito a questo colore nell’ultimo lavoro cinematografico di Roberto di Vito, Bianco per l’appunto.
Bianco è la storia di un assurdo rapimento di cui è vittima un ragazzo, che viene confuso, a causa della sua tuta da corsa bianca, con il figlio di un ricco imprenditore. Il sequestro mette in moto una serie di riflessioni sulla sua vita, spenta, vuota, solitaria. La nostalgia d’amore, la mancanza di solide amicizie, la voglia di partire verso luoghi lontani e idillici frenata dalla paura.
Bianco rappresenta allora “il colore della purezza, ma anche del nulla, dell’attesa, della sospensione”. Ed il suo simbolismo che percorre tutto il film trova precedenti in due sequenze bellissime, ci racconta Roberto di Vito, il regista: “La nebbia in cui si perde il nonno in Amarcord e la prigione in THX L’uomo che fugge dal futuro di Lucas”. Anche in Bianco, come nei casi citati, il bianco “rappresenta il risveglio in un limbo quasi piacevole ma oppressivo, rappresenta un candore che ha paura di sporcarsi con la vita”.
Bianco nasce da un cortometraggio dall’omonimo titolo, che riprende la storia di questo giovane in attesa di rivoluzionare la sua vita. Due minuti in cui sono racchiusi i temi che, poi, di Vito ha scelto di approfondire dando vita al lungometraggio, con cui ha partecipato a illustri Festival quali il B.I.F & ST Bari International Film Festival (gennaio 2011), Fanta Festival di Roma (giugno 2011), Festival Terra di Siena (ottobre 2011). Un ritorno al passato spinto dal desiderio di raccontare una tematica intrigante e che “poteva essere rappresentata con pochi mezzi”.
Un viaggio introspettivo, alla ricerca di se stesso che presenta, anche, “uno spunto noir”. La pellicola percorre due strade parallele: “La prima è che si può essere prigionieri delle proprie paure e la seconda è che ci si può sentire isolati e soli anche nelle città popolose e piene di mezzi di comunicazione”. Ed è la consapevolezza di queste paure e la difficoltà ad affrontarle che spinge il protagonista a realizzare “di aver vissuto nel vuoto, nessuno lo cerca e nessuno lo ha mai amato. Si accorge di essere stato un invisibile, una persona senza un passato e senza un futuro”.
Il sognare luoghi lontani è la via di fuga immaginaria più facile per il protagonista, i cui flashback e incubi, per quanto fantasiosi, appaiono molto realistici. Queste atmosfere emozionali sono presenti anche in un altro lavoro precedente di di Vito, il corto thriller girato in 35 mm dal titolo Sole.
A questo proposito menzione speciale per la musica, creata e suonata personalmente dal regista che unisce “elementi fantastici, psicologici e realistici” e il cui merito è “la capacità di realizzazione dimostrate anche con bassi budget”. Budget che ha condizionato anche la scelta degli attori, che nella loro interpretazione “sporca” rendono le scene ancora più realistiche e adatte, quindi, al tema rappresentato. Il protagonista è Igor Mattei, attore di L’Angelo, un corto premiato per la sceneggiatura a Tellaro Festival.
Gli esperti del genere thriller potrebbero rivedere nello stile di Bianco quello di Dario Argento. Ma Roberto di Vito ha uno stile molto personalizzato e un background molto eclettico che tocca anche grandi registi come Fellini, fonte d’ispirazione per il medio-metraggio in 35 mm Ai confini della città, che ha vinto il Globo d’Oro nel 1998, e Nanni Moretti, che impressionò il regista di Vito sin dal Io sono un autarchico, di cui apprezzò “l’acutezza dei dialoghi e dei personaggi”.
In Bianco abbiamo molti dualismi: sogno/realtà, bianco/nero (in senso metaforico riferito al momento buio che il protagonista affronta), amore/solitudine. È una storia di conflitti, per quanto “essendo una storia con pochissimi personaggi il conflitto avviene tutto dentro al protagonista”. Cosa ci vuole raccontare, quindi, il protagonista Luigi? “Luigi non ha grandi segreti oscuri, anzi, il bianco che avvolge il film, compreso la sua tuta da ginnastica, rappresenta una sua purezza che è anche causa dei suoi drammi. Luigi ha sensi di colpa non per quello che ha fatto, ma per quello che non ha fatto e per il suo immobilismo causato da una ’paura di vivere’, forse per una paura di ‘sporcarsi’ con la vita. Un’ombra ‘minacciosa’ che appare nei suoi incubi in realtà vuole scuotere il suo immobilismo ed è l’altra faccia dalla voce materna che parla attraverso l’acqua, simbolo di purezza, presente in molte immagini del film. Entrambi sono ‘voci’ dei suoi conflitti interiori”.
Spiazzante e originale, come qualcuno l’ha definito, il finale. Se ci aspetta una svolta psicologica di Luigi ci si sbaglia. Non c’è l’happy end ma una conclusione “infelice” e “rassegnata”. Il protagonista, una volta liberato, non si vendicherà dei suoi rapitori ma preferirà proiettare sul muro bianco della “prigione” i suoi “sogni di purezza”. Un finale amaro che “però potrebbe lasciare spazio anche a qualche riflessione positiva sul potere creativo e di riscatto dell’immaginario ‘artistico’ inteso come creazione di mondi paralleli”.
Il film, come sottolinea il regista, è auto-prodotto con 10mila euro “e ringrazio la troupe il tecnico M. Brinci, Il Principe Ruffo e Pino Bossio per la bellissima location, Fabrizio Razza e Sergio Castellani della Film Master e Luciano Sovena e Cecchi Gori per la distribuzione. Ringrazio, anche, la vostra rivista per l’occasione di visibilità che mi avete dato”. Recentemente Roberto di Vito è stato protagonista di una giornata di retrospettiva dei suoi lavori al Cinema Trevi. “Spero che i consensi e i traguardi del film ‘Bianco’ e dei corti realizzati mi diano speranze per ottenere finanziamenti per progetti futuri”. E lo speriamo anche noi di Ghigliottina.