Notte prima degli esami

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Il tour europeo di Renzi ricalca nella sostanza quello che gli studenti erano una volta tenuti a fare alla maturità fra i vari professori. Buona la prima, si attende il momento del professore che Renzi (e noi con lui) teme di più

di Raffaele Meo

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Quando feci la maturità, i professori che conducevano l’esame orale erano tutti interni, ovvero erano gli stessi che avevo visto tutti i giorni della mia carriera scolastica. Sapevano quindi tutto di me, conoscevano i miei punti di forza e quelli deboli, perfettamente in grado di farmi crollare con una sola domanda. Inutile barare, l’unica strategia valida per avere successo era quella di convincerli che avevi compiuto un passo avanti nello studio, che avevi lavorato quanto possibile per colmare le tue ben note lacune.

Il paragone potrà sembrare anche fin troppo romanzato, ma a ben vedere sono molte le analogie. Renzi si trova nella situazione di dover convincere chi già conosce bene lo stato del nostro paese che le cose sono cambiate o che quantomeno siano sulla strada del cambiamento. Così come noi studenti ci preparavamo il discorso a casa, davanti ai nostri genitori, così il Presidente del Consiglio ha tenuto una conferenza stampa nella quale annunciava i punti cardine della sua “tesina”, con tanto di slide grafiche.

Anche il percorso è più che studiato: per primi si va dal professore più “buono”, quello con il quale siamo entrati più in confidenza o del quale conosciamo meglio la materia. Nei panni di questo insegnante meno severo troviamo il Presidente francese Hollande, sulla stessa onda del nostro Renzi e, possiamo dirlo, con delle problematiche in casa piuttosto simili. Non è un caso che la prima domanda emersa durante il colloquio sia stata sul lavoro e sulla disoccupazione giovanile. La Francia, nonostante navighi in acque meno burrascose delle nostre, si trova in una situazione sociale molto tesa, dove le manifestazioni giovanili, dei disoccupati e delle minoranze non sono state meno violente delle nostrane. Fu proprio dai nostri cugini transalpini, infatti, che partirono le prime sirene sulla necessità di allentare la morsa dell’austerity e di ricominciare ad investire nella crescita e nello sviluppo del paese.

Con un background simile e con le stesse pressioni da parte della popolazione per avere risultati quanto mai necessariamente rapidi, non c’è da stupirsi che l’incontro tra i due sia finito fra i sorrisi, le battute e gli accorati arrivederci a Bruxelles, in pratica è stata una passeggiata. Non va comunque sottovalutato il peso di questo incontro così positivo, perché non solo mette pressione agli altri professori sicuramente meglio predisposti nei nostri confronti, ma serve anche a ridare un minimo di condivisione ai problemi del nostro paese, troppo spesso rigettati a quelli di una minoranza trascurabile in ambito europeo.

L’atteggiamento che troppo spesso noi italiani abbiamo percepito, infatti, è stato di abbandono e di estrema fragilità della Comunità europea, coesa quando si tratta di dividere il bottino, molto frammentata quando si presentano i conti da pagare. Siamo tutti ben consci delle enormi difficoltà che le giovani istituzioni europee si trovano ad affrontare, ma allo stesso tempo non sono mai sembrate quegli organi di garanzia super partes che si prefiggevano di essere, quanto l’ennesimo incartamento burocratico gravante sulle nostre spalle. Non c’è da stupirsi, quindi, se fioriscono un po’ ovunque nei paesi considerati “fanalino di coda” i movimenti anti europei. Di certo non si può giustificare comunque una presa di posizione del genere e non è difficile marchiare come scelte populistiche le scelte programmatiche di alcuni partiti italiani, pronti a cavalcare l’onda dello scontento solo per accaparrarsi qualche voto in più.

C’è bisogno di equilibrio, come in tutte le cose, e di certo non possiamo nascondere la mano quando dall’alto ci accusano di scarsa collaborazione e di tentativi di raggiro, perché sì, l’abbiamo fatto. Anche noi cittadini abbiamo goduto dei finanziamenti europei intascandone buona parte, anche solo permettendo alle amministrazioni locali di giocare sporco, sicuri di ricevere qualche sorta di vantaggio dal nostro atteggiamento omertoso. e’ ovvio che quando i soldi non ci sono più si tirino i remi in barca, è controproducente ora fare la voce grossa e urlare all’abbandono, quando si è collaborato, anche passivamente, alla nostra esclusione.

Il tema degli enti locali, appunto, è diventato di vitale importanza in questo frangente. La nuova verifica del titolo V della Costituzione pare essere la chiave di volta di un importante riassetto del sistema Italia, soprattutto per quanto riguarda i bilanci. Cosa effettivamente si voglia fare non è ancora ben chiaro, ma sono noti gli intenti: dare più indipendenza alle regioni e ai comuni, alleggerire le province, liberare gli enti virtuosi dagli oneri e vincoli del Trattato di Stabilità. In sostanza tutte cose belle, che dovrebbero permettere, finalmente dopo i numerosi mezzi tentativi compiuti, una maggiore autonomia e gestione degli introiti fiscali, permettendo così di lasciare i fondi dove servono di più e snellendo di molto le procedure di investimento in loco.

Messa in questa maniera l’idea di base è molto buona, ma le perplessità sono d’obbligo. Ricordiamo perfettamente il disastro della Cassa del Mezzogiorno, divenuta sistema clientelare dei politici e vera emorragia di denaro pubblico, e quando sentiamo che l’85% dei fondi europei cofinanziati dallo Stato sarà destinata alle regioni meridionali il deja vu è inevitabile. Il meccanismo ideato per evitare questa situazione dovrebbe risiedere nel sistema di controllo dei bilanci, che erogherà fondi e concessioni di spesa solo a quei comuni detti “virtuosi”, ovvero capaci di dimostrare una contabilità trasparente e in positivo o almeno sulla linea di galleggiamento evidenziata dallo Stato e dall’Europa. Ancora una volta l’idea è lineare, starà quindi a noi non segnare l’ennesimo autogol e trarre vero insegnamento dalla nostra storia, anche più recente.

Più che immettere nuovi fondi nel sistema Italia, l’apparato di riforme targato Renzi mira a mettere in circolo somme di denaro già presenti nelle casse dei vari enti locali, ma tenute congelate dai sottili equilibri economici, senza però sottovalutare la spinta iniziale, che comunque dovrà venire dall’alto. Proprio questa “spinta” è l’argomento caldo che Renzi dovrà esporre alla Professoressa Merkel, che lo attende impaziente oggi. Il docente più odiato, quello che tutto abbiamo temuto fin dal primo giorno di scuola, attende in cattedra ansioso di sentire le nostre risposte. In particolare questa volta la domanda verte su quel famoso 3% del Pil da non sforare. Come creare nuovi fondi senza intaccare il nostro debito pubblico? Renzi sembra sicuro della sua risposta, è tutto un errore di calcolo sui valori dello spread, sull’inflazione e su dati di previsione non perfetti della crescita economica che, una volta rivisti, ci permetterebbero di avere un “tesoretto” da investire in questa direzione.

Sarà la risposta giusta? In maniera quasi ufficiale la Prof tedesca è parsa apprezzare, sta tutto nel tradurre quel “coraggioso” apposto vicino a “programma di riforme”. La Merkel avrà inteso in senso positivo o voleva far prevalere un’accezione più negativa, quasi a sforare nello sconsiderato? Noi non siamo bravi a fare i conti come i banchieri tedeschi, quindi non possiamo sapere in anticipo se ciò corrisponde al vero, l’unica cosa che possiamo osservare, però, è che molti in casa si stanno già contendendo i meriti, sia all’opposizione che dal Governo stesso, avanzando anche idee più lungimiranti, “coraggiose”, potremmo dire.

(fonte immagine: http://www.itispolistena.it/)

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