"Pepe": l'arte all'interno di un carcere. L'esperienza di Laura Riccioli
Da 7 anni Laura Riccioli insegna teatro e pittura nel carcere di Civitavecchia. Il Teatro Argot Studio ha ospitato un monologo, “Pepe”, frutto degli incontri fatti con i detenuti
di Graziano Rossi
su Twitter @grazianorossi
In Italia parlare di carcere è sempre un argomento delicato, per tanti motivi. Il sovraffollamento, la durata delle pene, la vita tra le sbarre, la vita una volta usciti.
Eppure ci sono persone che cercano di dare una possibilità ai detenuti, forse troppo spesso considerati già ex cittadini. Una di queste persone si chiama Laura Riccioli, che insegna a all’interno del carcere di Civitavecchia da 7 anni, incontrandosi con i detenuti per dargli una speranza.
Da questi incontri è nato “Pepe“, uno spettacolo teatrale all’interno della rassegna La Scena Sensibile. Un monologo diretto e interpretato dalla stessa Riccioli, dove una insegnante di teatro e pittura e una detenuta si conoscono. Ecco cosa ci racconta Laura Riccioli nell’intervista che ci ha rilasciato.
Il teatro come mezzo attraverso il quale parlare di argomenti spesso scomodi come quello della vita nelle carceri. Come nasce lo spettacolo “Pepe”?
Lo spettacolo nasce dall’esigenza di condividere la nostra esperienza di associazione (l’associazione SangueGiusto, formata da altre due donne: Sarah Sammartino e Ludovica Andò) attraverso il nostro strumento preferito: il teatro.
Ci ha cambiate, ci ha nutrite, sia a livello umano che artistico, questo percorso di insegnamento nelle carceri, del teatro e della pittura. Scrivere e portare sulla scena questo spettacolo mi sembrava dunque un modo per restituire l’intensità che questa esperienza ci ha dato e continua a darci e devo dire che penso di non essermi sbagliata: al pubblico arriva un punto di vista sul carcere che non si aspetta, che gli fa capire meglio la realtà del carcere, le sue contraddizioni e soprattutto l’incredibile umanità che ci si incontra.
Negli ultimi 7 anni lei ha insegnato teatro e pittura all’interno del carcere di Civitavecchia. Rispetto alle prime lezioni che ha tenuto, oggi con quali occhi vede la vita dei detenuti?
Sicuramente all’inizio sono entrata in carcere con occhi abbastanza ingenui in merito al mondo delle carceri e ai detenuti, forse con qualcosa di romantico nell’approccio. Adesso i miei occhi sono diventati più esperti e più scaltri quindi quando ad esempio lavoro con un gruppo di detenuti sul teatro, cerco di fare tabula rasa di qualsiasi pregiudizio positivo o negativo possa avere, per poterli far lavorare in un clima di fiducia, che è l’unica cosa che può far sentire ad un essere umano che forse davvero, si può ancora ricominciare, anche partendo da piccoli passi, come portare avanti con costanza e dedizione delle prove per uno spettacolo assieme agli altri, rispettandoli e accogliendoli. Sono più concreta insomma, mi baso molto di più sull’istinto che non su un’idea preconcetta, mi concentro innanzitutto sullo strumento che mi preme insegnargli, con la certezza che, se deve essere, quella disciplina, che sia la pittura o il teatro, farà il suo corso dentro queste persone, che tendenzialmente non hanno quasi mai avuto occasione di frequentare delle discipline artistiche per la durezza delle vite che hanno avuto.
Lei ha dichiarato che l’unica evasione per i detenuti può essere quella di fidarsi di qualcun altro. Per chi ha la possibilità di uscire dal carcere dopo aver scontato la propria pena, che prospettive può avere?
Sicuramente le prospettive per un detenuto che abbia finito di scontare la sua pena sono molto poche, soprattutto a livello lavorativo, sia perché il carcere ti marchia, cioè la gente non ti rinnova alcun tipo di fiducia nel momento in cui sa che sei stato dentro, sia perché il lavoro è poco per tutti, sia perché in carcere non c’è una vera e propria formazione professionale se non in rari casi. Penso invece che tutto il tempo che un detenuto passa fuori dalla società civile non dovrebbe essere dedicato ad altro che alla formazione: scolastica, professionale, artistica. Paradossalmente invece il lavoro in carcere viene affidato ad un detenuto solo in rari casi, e se in qualche modo il detenuto se lo è meritato con la buona condotta.
Il suo monologo in questi giorni ha ricevuto il Patrocinio del Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio. A proposito di diritti, come vede la situazione delle carceri italiane?
Dei loro diritti purtroppo i detenuti mi sembra che godano in maniera molto relativa, anche a seconda degli avvocati che possono o non possono permettersi (penso ad esempio al recente affare Ligresti).
La situazione nelle carceri italiane è disastrosa, sia per i detenuti che per il personale di polizia penitenziaria, che purtroppo soffrono entrambi di mancanza di risorse e di spazi, cosa che ovviamente limita alquanto lo stato di diritto. Il disagio nelle carceri cresce sempre di più parallelamente al numero dei detenuti presenti negli istituti, senza che vengano elaborate politiche di snellimento dei processi (per cui molti detenuti, come noto, sono in carcere in attesa di giudizio mentre le loro vite sono definitivamente compromesse), o a causa di inadeguati e scorretti strumenti legali di controllo (vedi Fini-Giovanardi, Bossi-Fini, etc.) o senza che si faccia del carcere un luogo in cui alla pena si sostituisce la formazione che è l’unica cosa che possa dare a queste persone dei futuri diversi.