La vita nelle comunità di riabilitazione in "EMMAUS" di Claudia Marelli
Abbiamo visto in anteprima al Nuovo Cinema Aquila, Emmaus, opera prima di Claudia Marelli, film documentario ambientato nella comunità terapeutica per dipendenze patologiche nella provincia di Iglesias, in Sardegna. Tre storie, tre sguardi, tra natura e gabbie”. La nostra recensione-intervista
di Giulia Marras
su Twitter @giulzama
Claudia Marelli non aveva mai preso in mano una videocamera. Poi ha scoperto Casa Emmaus e ne ha comprata una, per raccontare i suoi abitanti. Emmaus è un film (e) documentario sulla vita all’interno di una comunità terapeutica di recupero per gravi dipendenze patologiche, nascosta nella campagna iglesiente della Sardegna. Presentato all’ultimo Festival di Torino, lunedì scorso è stato proiettato per la prima volta nella Capitale al Nuovo Cinema Aquila del Pigneto, con la presenza della giovane regista Claudia Marelli, sarda di nascita ma romana d’adozione.
Emmaus è il suo primo film e nasce dal ritorno a casa, dalla curiosità per una realtà lontana dalla moderna quotidianità, dai racconti di un’amica operante all’interno della comunità e dagli incontri e avvicinamenti avvenuti durante i sei mesi di vita con gli uomini che la abitano e ci lavorano. A Casa Emmaus sono in riabilitazione, tra chi arriva e chi se ne va, 40 uomini, tra giovani e non, tutti con gravi problemi di dipendenze e di marginalità sociale, a volte con la doppia diagnosi di patologie psichiatriche; ma le immagini del film sono incentrate soprattutto su tre protagonisti, Antonello, Fausto ed Angelo, i primi che si sono fidati di Claudia e lasciati avvicinare dalla sua videocamera.
“Mi son fatta guidare da loro, senza chiedergli nulla, cercando di rispettare sempre i loro tempi. Col desiderio non di “documentare”, non di cercare di dimostrare una tesi o fare un discorso sociologico ma di mostrare l’esperienza profonda e per me straordinaria che stavo vivendo” ha raccontato la stessa Claudia a Ghigliottina. Non è esatto infatti definire Emmaus come un vero e proprio documentario: è piuttosto il racconto e lo scorcio del rapporto che la regista è riuscita a creare con i tre uomini. A volte più intimo, come con Antonello, il più giovane dei tre, “Antonello da subito mi ha iniziato a parlar della musica che gli piace (e che lì non aveva modo di ascoltare) e mi ha fatto vedere un po’ tutti i posti della comunità, a partire dalla biblioteca, che era il suo unico rifugio, sino alla macchinetta del caffè, unica magra consolazione in una vita di astinenza obbligatoria”; a volte con lo sguardo più distaccato, ma profondamente rispettoso, come con Angelo, mostrato nel suo amorevole e attento lavoro di cura degli animali, nella pulizia del porcile, nella gestione del gregge di pecore.
Erano loro che si offrivano alla videocamera, invitando letteralmente Claudia a seguirli e riprenderli durante le loro attività quotidiane, senza mai intromettersi, senza mai interromperli o interrogandoli. E’ stato, per esempio, Fausto a chiederle di accompagnarlo in visita dai suoi genitori, lasciandola sbirciare nello spazio intimo e privato di una casa e di una famiglia e della sua sofferenza. Claudia li osserva dormire, li osserva mangiare, a volte sembrano dimenticarsi della presenza della telecamera, ed è in quei momenti che si coglie ancora meglio l’uomo. “Ho cercato di non imporre il mio sguardo su di loro ma di mostrare lo scambio che avveniva tra di noi, per questo ho scelto di lasciare i momenti in cui sono Fausto o Antonello a tenere la camera e a posare il loro sguardo su ciò che li circondava e su di me, in un modo orizzontale e non autoritario”.
Ed ecco che, anche in questo modo, vengono rovesciate le regole tacite del documentario, e chi guarda appare guardare, mentre a girare è l’oggetto guardato fino adesso. Ma mostrando la sua visione, il suo sguardo, probabilmente aiuta ancora di più a lasciarsi comprendere e a lasciarsi vedere. Diventa così uno sguardo comune, condiviso, curioso per uno strumento “nuovo” (la videocamera) e tramite esso, di nuova scoperta verso l’ambiente circostante, la natura, l’altra protagonista di Emmaus: la Sardegna e i suoi paesaggi, come testimoni della crisi dell’uomo (e della crisi degli anni Ottanta, con la massimo diffusione di tossicodipendenza nel territorio) e delle sue debolezze; territori causa e cura del malessere dell’isola, nell’isola. “Non credo che avrei potuto girare un film altrove. La Sardegna è il luogo che conosco meglio e al quale sono più legata, direi che è stato fondamentale”.
Possono essere così perdonate tutte le carenze tecniche di un lavoro senza una troupe, che sarebbe stata troppo invasiva e non utile al risultato poi raggiunto. Nella sua piccola intrusione, Claudia è invece riuscita a ricavare anche un’esperienza personale importante, non solo una prima opera cinematografica di valore: “Mi sono stupita della loro generosità nel voler fare questa cosa insieme e nel loro mettersi in gioco e soprattutto mi sono sentita accolta e accettata, in quanto là ero io l’elemento estraneo. E mi sono accorta che può bastare veramente poco per ritrovarsi in carcere o in manicomio (anche se adesso li chiamano Ospedali Psichiatrico Giudiziario) o in una comunità con una diagnosi psichiatrica attaccata addosso o una pena da scontare. […] Abbiamo riso e scherzato (per loro ovviamente io ero anche un diversivo alla monotonia della loro vita la dentro) e ho scoperto che filmare mi appassiona più di quanto potessi immaginare.”
Nonostante la colonna sonora di Vic Chesnutt, Emmaus è un film di musica che manca (come la nostalgia di Antonello), di silenzi, di echi (un’improvvisa apparizione sonora di De André con Ho visto Nina volare), di ascolto verso parole e storie, che esistono, ma che non vengono (quasi mai) mai dette. E mai pretese.