Solitudine e abbandono: il dramma di Medea al Teatro Eliseo di Roma
Tra ira furiosa e mostruoso dolore, l’epica interpretazione di Maria Paiato diretta da Pierpaolo Sepe
di Angela Telesca
Volti diafani, atmosfere lunari, musiche elettroniche, voci che si sovrappongono, si sovrastano, vesti scure, poca luce. Simboli di un luttuoso male atavico che incombe e scivolando si insinua ovunque, senza risparmiare nessuno, uomini, donne, bambini e luoghi. Simboli che presagiscono l’inarrestabile epifania di un dolore sempre più pericoloso, sempre più orrendo, più disumano.
Il Teatro Eliseo di Roma fino a giovedì 17 aprile ospita la “Medea” di Seneca, nell’ottimo adattamento di Francesca Manieri, scelto per la visionaria e puntuale regia contemporanea di Pierpaolo Sepe, è reso al pubblico come dramma della solitudine che genera egoismo e dell’egoismo che genera l’unica legge morale: la salvezza di se stessi attraverso la vendetta. Dramma della contemporaneità.
La combattuta lotta interiore tra bene e male è specchio del conflitto tra due mondi, tra due visioni della vita, dell’individuo, della patria e della natura. Tra Occidente e tutto ciò che Occidente non è.
Dopo Erodiade di Giovanni Testori, Pierpaolo Sepe sceglie di mettere in scena una donna estrema, perché estremo è il modo in cui ella vive tutte le emozioni, individualità complessa, maga e straniera, erede del Sole e sacerdotessa di riti lunari, che ama fino a uccidere e che uccide per troppo amore.
Ed è ancora Maria Paiato, la grande attrice veneta, la sua interprete prescelta. Come dargli torto.
Epica. Tragica. Viva verità. L’interpretazione della straordinaria Paiato, accompagnata da attori bravissimi come Max Malatesta, Orlando Cinque, Giulia Galiani e Diego Sepe, dona al pubblico, empaticamente emozionato, una Medea assoluta. Nel suo immenso dolore dell’abbandono, nell’ irrefrenabile ira per il tradimento inaccettabile. Medea. È la donna che si mette a nudo, nell’ipertrofia orrenda delle proprie passioni, unica legge e unica causa delle proprie azioni, è colei che non teme di mostrare il volto furioso del mostro sopito dentro di lei che grida vendetta e macchina sciagure quando gli viene stappato ciò che più ama.
Medea è anche il dramma della solitudine infinita e dell’emarginazione dello straniero che rinnega la sua patria e rende possibile il successo e il ritorno degli Argonauti, del suo Giasone e del “cantore Orfeo, colui che sulla sua lira fonda il sapere dell’Occidente”. Medea, con la sua ira cieca, è “il cuore nero e rimosso che pulsa e giace sotto le fondamenta scricchiolanti di un intero mondo” e di cui Creonte è simbolo.
Nelle vesti di uno sceriffo americano, arrogante e pieno di sé, rappresenta il Potere, lo Stato, che abusa della sua autorità, volto occidentale che ha paura dell’ “altro da sé”, e che per questo lo soffoca, lo umilia, lo vilipende, fagocitandolo nella misura in cui è sottomesso e rimosso, sommesso e disarmato della propria identità, storia e cultura. Medea è il volto represso dell’ospite, di chi chiede accoglienza in terra straniera, dell’intruso che cessa di cedere, dopo essersi annullata fino a compiere crimini, all’ ennesima offesa e alla grande ingiuria.
“La misura dell’odio è la stessa dell’amore” è la lapidaria maledizione che scaglia al mondo intero affondandolo nel caos inarrestabile delle infinite colpe di un male disumano che non risparmia neanche il futuro delle nuove generazioni.
L’atrocità del testo senecano cede il posto al simbolismo.
L’infanticidio per vendetta dell’amore tradito, l’atroce atto estremo che toglie la vita ai frutti di quell’amore è affidato all’evocazione di un rito d’invocazione alla luna che termina con due figure stilizzate di bambini che la mano di Medea, intrisa del rosso del sangue, disegna su due fogli di carta bianca che drammaticamente poi accartoccia.
Brividi. Il cuore ti si stringe in una morsa e pensi a quante donne si portano, oggi più di ieri, la tragica colpa di quel mostruoso atto di cui l’infinita solitudine è causa e amica.