Ruanda, 1994: il silenzio di un genocidio

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Un ventennale come quello che ha marchiato la storia del Ruanda, trascina dietro le sue fila un’intera comunità internazionale che, soffocata dalla burocrazia e negligenza, si è resa complice di una guerra selvaggia, disumana, irrazionale

di Martina Martelloni

ruanda1Nell’aprile del 1994 in Africa è prevalsa la logica del potere; quello politico che ha guidato le prime elezioni libere nella storia Sudafricana e quello etnico che ha insanguinato il Ruanda. Questi due eventi, profondamente diversi per gravità e conseguenze, hanno gareggiato per una supremazia mediatica ed una attenzione internazionale che poi, alla fine della corsa, ha visto prevalere la sfera innovativa di Johannesburg rispetto ai massacri di Kigali.

A distanza di venti anni, in molti, troppi, provano vergogna e risentimento verso un indifferenza ed un ritardo della consapevolezza rispetto a quello che nella storia dell’umanità è stato catalogato come sterminio di un popolo, il popolo dei tutsi.

Non fu una consueta guerra intertribale, non fu lotta locale o guerriglia civile tra ribelli. Nell’aprile del 1994 il Ruanda subì una ferita ancora oggi non totalmente cicatrizzata e che trova le sue origini da un colonialismo europeo incapace di equilibrare le peculiarità sociali, le differenze tradizionali e culturali e che di fatto hanno alimentato, negli anni, una faziosità divenuta disprezzo prima ed odio poi.

Il 6 aprile del 1994 venne abbattuto a Kigali, l’aereo su cui viaggiavano il presidente ruandese Habyarimana e Cypren, presidente del Burundi. Juvénal Habyarimana era un hutu e con la sua morte, o meglio, con il suo assassinio, ebbe inizio la “caccia all’uomo tutsi,” cavie di una rabbia infinita e mai sfogata.

Da quel giorno e così per i prossimi cento giorni, 800 mila anime caddero vittime di un sistema folle che non nasce da contrasti tribali ma da cause radicalmente cosparse negli anni, frutto di una incontenibile pressione demografica alla quale ha fatto seguito la competizione per le irrisorie risorse a disposizione ed una cruda politica di segregazione imposta dalle autorità coloniali di natura belga.

La radio che trasmette musica si trasformò in qui giorni in strumento di propaganda, manipolazione, ipnotizzazione delle menti per estirpare la minoranza tutsi presente nel Paese. Eppure, in quei giorni di frenesia continentale per l’esito del voto in Sudafrica, nessuno cercò di capire davvero l’intensità dei fatti ruandesi. Addirittura l’Onu, il 21 aprile di quel maledetto anno, prese la decisione di ritirare il contingente di caschi blu per “motivi di sicurezza”, lasciando sul campo un innocuo numero di 270 peacekeeper su un totale iniziale di 2.500.

L’Europa sembrò sorda e cieca. La Francia, in particolare, svolse un ruolo fortemente contraddittorio essendo da sempre strettamente legata amichevolmente alla componente hutu, fu proprio Parigi ad avviare un operazione Turquoise che divenne, in realtà, un tunnel sicuro per gli assassini, resi invisibili tra le migliaia di profughi che fuggirono in Burundi e nell’attuale Repubblica Democratica del Congo.

Il 7 aprile 2014, il segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon ha parlato di colpa e di vergogna di un organizzazione mondiale che non è stata in grado di impedire lo scorrere irrefrenabile di sangue innocente. All’epoca dei fatti, neppure l’allarme e le grida di aiuto lanciate da Romèo Dellaire, generale canadese a capo dell’Unamir (contingente dei caschi blu in Ruanda), scossero l’inerzia di un Onu contrario all’invio di altri uomini e di un mandato più ampio per tentare, per lo meno, di intervenire rapidamente e necessariamente in Ruanda.

Soltanto il 17 maggio, quando oramai i numeri dei cadaveri sparsi tra le strade di Kigali e Murambi diveniva nauseante, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu riconobbe la natura degli atti commessi, azioni riconducibili alla parola genocidio. Bisognerà attendere ancora due mesi per la caduta del governo hutu e la fine dello sterminio che al di là della distruzione, comportò traumi sociali forti e che oggi, vede un popolo hutu ed un popolo tutsi convivere insieme per sopravvivere ad un capitolo del passato dettato da rancori non loro ma dei poteri forti, senza mai, però, dimenticare come si è giunti a tutto questo e come nessuno dall’esterno, si è reso soccorritore attivo, invece di restare osservatore passivo.

 

 

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