Nuove ombre sulla strage di Capaci
Gioacchino Genchi, uno dei migliori investigatori italiani, indagato dai magistrati di Caltanissetta: verranno accertate le sue responsabilità nell’occultamento di un dettaglio fondamentale per l’inchiesta partita all’indomani dell’attentato in cui perse la vita Giovanni Falcone
di Guglielmo Sano
Sergio Lari, Procuratore Capo di Caltanissetta, insieme al suo pool di magistrati sta dando un apporto fondamentale al disvelamento del mistero che avvolge gli attentati “gemelli” di Capaci e Via D’Amelio, nel tentativo di comprendere la giusta posizione di queste pagine tragiche di storia italiana, nel capitolo ancor più tragico che riguarda la cosiddetta “Trattativa Stato-Mafia”. Proprio Lari, setacciando gli atti prodotti all’indomani dell’attentato a Giovanni Falcone nell’ambito dell’inchiesta sui mandanti occulti di “Capaci”, ha ritrovato sommerso sotto la spessa polvere del tempo (e di qualche depistaggio) un piccolo dettaglio, un tassello che potrebbe rivelarsi determinante per completare un puzzle ancora molto lacunoso.
La sera prima dell’esplosione in cui persero la vita Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Schifani, Montinaro e Dicillo, un agente della Polizia Stradale fuori servizio ha notato, nel luogo che poi sarebbe diventato tristemente famoso, un furgoncino bianco con attorno degli uomini che sembravano degli operai. Nell’immediatezza dell’attentato (26 Maggio), l’agente della stradale riportò il fatto a un superiore, salvo poi, giorni dopo (1 Giugno), con una nota in calce alla propria relazione, cambiare versione riportando di aver commesso un errore e che, furgone e (stavolta) un solo operaio, non erano sull’autostrada ma su una strada laterale, più sotto rispetto al luogo del delitto, “che dovrebbe chiamarsi Via Kennedy”.
Lari insospettendosi per la differenza tra le due versioni – basta passare una volta da quel tratto di strada per constatare che il luogo da cui G.D.M. dice di aver visto è in contraddizione con ciò che poteva vedere da quella stessa posizione – ha convocato l’agente G.D.M. a Caltanissetta per chiedere spiegazioni: l’agente ha detto di essere stato costretto a “far sparire” quel furgone dalla scena del delitto. A intimargli di cambiare quel particolare sarebbe stato “un poliziotto molto noto, anzi ex-poliziotto: Gioacchino Genchi”. Quest’ultimo, in maniera implicita ma comunque chiara, l’avrebbe minacciato dicendogli di cancellare quel dettaglio dalla relazione oppure “prendere la pistola e spararsi”.
È molto strano che Gioacchino Genchi, “uomo di Stato” dalla comprovata fedeltà ai valori costituzionali oltre che vero fuoriclasse delle indagini telematiche, sia finito nell’indagine sui mandanti occulti di Capaci. Che questa sia l’ennesima opera di delegittimazione nei confronti di chi, nel corso degli anni, si è impegnato a rischiarare l’orizzonte insoddisfacente delle “versioni ufficiali”, non solo sulla morte di Falcone e Borsellino, appare molto probabile a chi segue le vicende in questione. Tuttavia, l’ex poliziotto in questo momento avvocato penalista, ha deciso di rinunciare alla prescrizione per i fatti che gli sono contestati (risalgono a più di 20 anni fa) anche se l’incriminazione prevede fino a 20 anni di carcere (favoreggiamento aggravato).
Genchi ha ammesso di conoscere quell’uomo perché “mio dipendente dal 1993” (quindi l’avrebbe conosciuto molto dopo la strage), nello stesso tempo ne ha messo in discussione l’attendibilità “che io sappia lo sottopongono a visita periodica per questioni di ordine neurologico”; a gli chiede se l’agente G.D.M. si stato imbeccato, Genchi risponde “sospetto che si sia imbeccato da solo e che poi qualcuno ci abbia speculato sopra per utilizzare la sua testimonianza contro di me”.
Perché qualcuno dovrebbe avercela con Genchi? Per “la mia deposizione al processo Borsellino bis, allo scontro con la Boccassini e al ricorso al Tar contro la mia destituzione dalla polizia, il cui esito si conoscerà fra pochissimo. io mi sono messo di traverso nel caso della Trattativa Stato-mafia, di cui non ho mai condiviso l’impostazione della procura di Palermo, e anche nella vicenda del generale Mori”.
Genchi (precisando che nel periodo in cui avrebbe minacciato l’agente era chiuso in bunker per condurre le indagini proprio su “Capaci”), d’altra parte, ha sempre detto di non credere alla “Trattativa” – “una delle più grandi assurdità che abbia partorito la giustizia italiana dal dopoguerra ad oggi” – e ha sempre denunciato le indagini che imputavano responsabilità gravissime sempre e solo a una “bassa manovalanza” criminale, escludendo la “zona grigia” degli apparati statali che spesso “funzionano al contrario” come nel caso di “Via D’Amelio”.
Genchi, prima di lasciare la “squadra” di Arnaldo la Barbera che indagava sulle morti del ‘92, si oppose all’imputazione di Vincenzo Scarantino, millantato killer di Borsellino poi riconosciuto come “falso pentito”, che la Procura di Palermo voleva per forza imbastire per nascondere “i moventi reali della strage, che non erano la trattativa Stato-Mafia ma le indagini che Borsellino aveva avviato su Contrada, Signorino…”.
Tornando alle dichiarazioni dell’agente che lo accusa, Genchi non esita a dire che “questo ha cambiato versione perché aveva detto minchiate la prima volta” starà ai magistrati di Caltanissetta accertare la “verità” visto che, fatto ancora più inquietante, lo stesso dettaglio, cioè quel sospetto cantiere notturno sparito per decenni dalle indagini, era stato notato anche dall’ingegnere palermitano Francesco Naselli Flores, cognato del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che aveva dichiarato di aver visto nella tarda mattinata del 22 Maggio un furgone bianco, forse un Maxi Ducato, con degli uomini intorno (di uno di questi sarebbe riuscito a fornire dei dettagli utili in chiave identikit) che “stendevano cavi”. Già allora le indagini avevano accertato che nessuna compagnia (Telecom, Enel, etc…) aveva dei dipendenti impegnati sul posto.