“Porte chiuse” di Jean Paul Sartre al Teatro Argot Studio di Roma
L’allestimento della pièce che celebra l’esistenzialismo dell’intellettuale francese a teatro. In scena fino al 4 maggio
di Angela Telesca
All’interno delle mura di un palazzo trasteverino, uno dei più famosi palchi della scena contemporanea e d’innovazione romana, il Teatro Argot Studio ospita il più celebre esperimento drammaturgico di Jean Paul Sartre, manifestazione emblematica del pensiero esistenzialista dell’intellettuale francese. Porte chiuse, scritto nel 1943, durante gli anni delle dittature assassine, nella curata ri-lettura contemporanea dell’ allestimento di Filippo Gili che ha sapientemente diretto un cast d’eccezione: Pier Giorgio Bellocchio, Vanessa Scalera, Liliana Massari e Massimiliano Benvenuto.
Il pubblico è invitato ad accomodarsi lungo tutto il perimetro della sala/palcoscenico, un claustrofobico salottino stile Bauhaus, con divani in pelle di colore nero o bianco, pareti nere, senza finestre, una vuota scatola nera in attesa di essere riempita da identità.
Facile dimenticarsi di essere in teatro e di sentirsi ospiti di un albergo minimalista, post-moderno, elegante, spigoloso e spersonalizzato.
L’unica via d’ingresso e di uscita si chiude alle spalle di un uomo elegante accompagnato da un giovane, che a tutti sembra essere, il cameriere dell’hotel.
È Garcin. Il primo sfortunato, malcapitato ospite. Poi la porta si chiude alle spalle di Inès. Ed infine dietro a quelle di Estelle. Porta chiusa per non aprirsi fino alla fine dello spettacolo.
La scena fagocita gli spettatori, che diventano, insieme alle mura, l’ulteriore invalicabile confine della prigione abitata dai tre protagonisti. Chi sono. Cosa li accomuna, cosa hanno da raccontarsi e da raccontare. Perché loro tre insieme? Per volere di chi? Per sbaglio? Per un caso?
Tre carnefici. Un giornalista, un’impiegata delle poste, una giovane ricca mondana. Sono morti, ma essi preferiscono definirsi “assenti”. Ci si dimentica di essere in un albergo. È l’incubo di una stanza infernale che imprigiona per sempre le loro esistenze, le loro colpe, i loro desideri, quello che sanno di loro stessi.
Incapaci di staccare il loro cordone ombelicale dalla terra, vivono ancora delle impressioni che hanno di loro di chi sulla terra, sentono e vivono ancora del giudizio dei terrestri. Come visioni, sono ossessionati da ciò che di loro si dice e non si dice, da tutto ciò che di loro si è detto e da ciò che di loro si ricorda o non ricorda.Tre vittime di se stessi, attraverso il terrificante sguardo altrui che ha riconosciuti, costretti all’eterna tortura dell’infernale giudizio.
Nessuno scenario dantesco.
L’inferno di Sartre è l’incubo di essere costretti a condividere per l’eternità lo stesso spazio claustrofobico con gli altri nella noia assoluta. Tutto quello che conoscono di loro stessi e della loro esistenza è grazie, o per sfortuna, alle impressione degli altri, in vita, e ora anche in morte.
Molto più terreno. L’inferno è parte della vita, non solo della morte. Saranno l’uno il giudice dell’altro, l’uno il tormento dell’altro, l’uno la punizione dell’altro.
Si accusano, si combattono, si alleano, si giudicano reciprocamente, ognuno costringe l’altro a fare i conti con se stesso e con le proprie azioni, con il modo in cui esse sono state percepite dagli altri, con estremo sadismo e cinismo.
Ma nessuno di loro riesce ad abbandonare quel non-luogo infernale nell’unico momento in cui è possibile. Forse perché senza quello sguardo dell’altro, in cui riconoscersi e conoscersi, non esistiamo. Ecco la morte. Il Nulla.
È solo il terrificante sguardo altrui l’unico che ci rende certi di esistere. “L’inferno sono gli altri”.
La tortura infernale è nella nostra mente, è nell’amara consapevolezza della condizione dell’uomo costretto ad esistere solo attraverso lo sguardo dell’altro.
L’inferno sono gli occhi degli altri, l’unico specchio che ci rende l’immagine della nostra esistenza.
Citando la presentazione, “Porte chiuse non è la condizione di una stanza d’albergo, di una suite, di un inferno qualsiasi o dell’unico inferno possibile. Porte chiuse è quella condizione dell’anima, ma potremmo dire dell’Io, all’interno della quale risulta impossibile l’autosufficienza, la coscienza di un sé che non passi attraverso il terrificante sguardo dell’altro”.
Un’agghiacciante interpretazione della riflessione sartriana sulla condizione dell’esistenza, sulla morte e sulla vita, sul rapporto dell’individuo con l’altro in un allestimento da non perdere.
Concedetemi una riflessione meta-teatrale: Porte chiuse è la condizione dell’arte, del teatro, nella sua necessità di avere degli sguardi che osservano per continuare ad esistere, per poter esserci.
22 APRILE – 4 MAGGIO 2014
Associazione Marco Bellocchio
PORTE CHIUSE
di J.P. Sartre
traduzione e regia Filippo Gili
di Filippo Gili
con Piergiorgio Bellocchio, Vanessa Scalera, Liliana Massari, Massimiliano Benvenuto