Basket, NBA Playoffs: Conference Finals, "I Soliti Sospetti"
Spurs – Thunder, Pacers – Heat: le più attese rimangono a contendersi il titolo in una postseason spettacolare
di Stefano Brienza
su Twitter @BrienzaStefano
A volte si dice che il basket sia uno sport meritocratico, che favorisce la vittoria finale di chi ha giocato meglio nel lungo periodo, seppur con le dovute difficoltà. E con le dovute eccezioni, come per esempio quella pazzesca Euroleague conquistata ieri sera dal Maccabi Tel Aviv in maniera totalmente inaspettata. O, per citare un fatto altrettanto recente, il fatto che gli Indiana Pacers siano in Finale di Conference NBA dopo due serie per larghi tratti pietose, e qualche mese di impressionante calo dell’amalgama e della rendita di squadra.
E invece, dicono alcuni, la trappola è riuscita: i Pacers sono dove volevano essere, in situazione di crescita globale e parcheggiando con i fari spenti. Nel cortile altre tre vetture ben riconoscibili. C’è una Ferrari, rossa come gli Heat, che offre una velocità massima imbattibile, ma il NOS modello Wade richiede un utilizzo limitato ed occasionale. La Bentley neroargento è elegante, potente, perfetta, ma anche vecchia e logora come Duncan e Ginobili. Poi c’è una Porsche da 500 cavalli che sta viaggiando al massimo dei giri, con un sormontabile problema all’asse centrale (nel basket si chiamerebbe il manico, o più semplicemente l’allenatore) ma soprattutto il piccolo difetto di aver appena perso una ruota, il cui nome è Serge Ibaka. Ad Indiana, a bordo di un molto meno vistoso fuoristrada corazzato marcato Jeep a motore diesel, è servito un mese a carburare nei playoff, ma ieri sera s’è portata a casa gara 1 con una memorabile prova offensiva.
Sono le più prevedibili le protagoniste delle final four che sono iniziate ieri. Il primo turno è stato probabilmente il più bello ed equilibrato di sempre (quantomeno ad Ovest), ma dopo le semifinali i seed numero 1 e 2 delle rispettive Conference sono lì a giocarsi il titolo, come se fosse tutto già scritto, come se il basket fosse uno sport profondamente meritocratico.
La finale della Western rischia di essere macchiata da un’assenza molto, forse troppo pesante. Ibaka (fuori per la stagione dopo un infortunio durante la risolutiva gara 6 contro i Clippers) è l’assoluto perno difensivo dei Thunder, cambia le parabole altrui come nessun altro nella Lega ed offre un fondamentale contributo allo sviluppo dei giochi a due con Westbrook e Durant grazie al proprio range di tiro. Per sopperire alla sua assenza, oltre ad avere un rendimento seriamente overachieving (oltre i propri limiti) da parte dei sostituti, le due superstar di Oklahoma City dovranno fare bambini con baffi, barba e basette.
Avranno di fronte una squadra che sa sfruttare le debolezze altrui come nessun’altra, e la paventata soluzione di usare Durant prevalentemente da 4 sembra troppo semplice per mettere in crisi Popovich. Soprattutto per un coach come Brooks, mai veramente decisivo con i propri aggiustamenti a memoria d’uomo e sempre aggrappato alle giocate individuali dei suoi due incredibili attaccanti, autori finora di una postseason di quelle da raccontare ai nipotini, nel bene (tanto) e nel male (non pochissimo).
San Antonio, poi, arriva alla serie nelle condizioni migliori possibili. Il fattore campo è loro, e la serie con i lodevoli ma incompleti Blazers è stata rilassante come una tisana. Un piccolo spavento, quel fastidio al tendine che attanaglia Tony Parker, ma nulla di eccessivamente preoccupante e una settimana di riposo alle spalle, mentre i Thunder hanno sudato tutte le camicie disponibili nelle prime due serie. Con il francese anche solo al 70% la loro area rischia di ospitare continui banchetti spursiani, ribaltando la tendenza che solitamente vede i texani soffrire parecchio l’atletismo di OKC. Mai dare per morto un MVP, ma la seconda finale consecutiva neroargento sembra piuttosto scontata.
Dall’altra parte c’è la rivalità più grossa dell’ultimo lustro, e i temi – pur ripetendosi – non stancano mai. In gara 1 è tornata di moda la dominanza di Hibbert e West sotto le plance, con nessuna risposta da Bosh e poca produzione dal supporting cast che spesso decide il destino degli Heat. La costanza di Lebron James è sempre fuor di dubbio, e quando vede che ce n’è bisogno magari ne tira fuori 49 come in gara 4 contro Brooklyn. Wade però in gara 1 ha speso uno dei suoi pochi gettoni, che – preziosi come sono – non erano quasi mai andati sprecati in passato.
Per Miami, comunque, perdere la prima è un’abitudine, e spesso rendono pan per focaccia subito dopo, quando Spoelstra propone i primi aggiustamenti e la pressione inizia a pendere su chi ha la succosissima occasione di andare sopra 2 – 0. Come si fa a sparare al diavolo… e se sbagli? Gli Heat sono crudeli. Anche ieri sera, davanti ad una gara perfetta degli avversari fra le mura amiche, poche folate bastavano per tornare a tiro. Se però le triple di Hill ed i tentativi forzati di Stephenson a gioco rotto entrano sempre è necessariamente notte fonda per chiunque nella Lega, perché Indiana trova quelle soluzioni fra gli esterni da aggiungere alla produzione di Paul George che insieme all’organizzazione difensiva e al controllo dei rimbalzi la rende imbattibile o giù di lì.
I Pacers ultimamente sono sembrati una combriccola di teste calde da dopolavoro in tantissime uscite, anche importantissime: qualsiasi esperto darebbe zero credito ad una squadra che perde largamente due gare 5 in casa nei primi due turni (e non a caso nella preview di Espn, che peraltro in passato si coprì di ridicolo proprio in occasioni del genere, il 100% degli opinionisti ha votato il passaggio di turno di James e compagni). Nonostante ciò, è praticamente sicuro che la serie sarà come quelle degli anni scorsi: fortemente tesa, estremamente fisica, indubbiamente tirata e lunga. La Jeep a fari spenti contro la Ferrari guidata dal Diavolo. How do you shoot the devil in the back? What if you miss?
Bel pezzo e bella citazione cinematografica.