Iovine parla, il Palazzo trema
Il potente “ministro dell’Economia” del Clan dei Casalesi arrestato nel 2010 dopo quasi 15 anni di latitanza, ha deciso di collaborare con lo Stato: depositati i primi verbali, stanno emergendo delle rivelazioni a dir poco scottanti sulle collusioni tra la Camorra, la politica e l’imprenditoria
di Guglielmo Sano
“O ninno”, il ragazzino, cosi viene chiamato Antonio Iovine. È un boss giovane: classe ’64, ha preso il potere intorno ai 20 anni e a 31 ha cominciato la vita da latitante. L’hanno cercato per mezzo mondo ma, come ogni fuggitivo della criminalità organizzata che si rispetti, era semplicemente a “casa sua”, ospite di un muratore di Casal di Principe e protetto da una rete di fedelissimi e fiancheggiatori. Quando la Squadra Mobile di Napoli ha fatto irruzione nella palazzina in cui si trovava ha tentato “timidamente” la fuga ma alla fine si è arreso, dicendo semplicemente “sono io”.
Non è un boss come tanti, Antonio Iovine: è il ministro dell’Economia del clan dei Casalesi. Non solo un capo militare (anche se ha sparato molto): è stato ai vertici della temibile organizzazione criminale per 10 anni (praticamente un record). Un’istituzione, insomma.
Adesso ha scelto di pentirsi: tremano importanti settori dell’industria e della politica nostrane ma, la rete che ha saputo tessere, va ben oltre i confini campani. “È uno che sa tutto” – ha scritto Roberto Saviano – “il talento di Iovine è sempre stato quello di saper far fruttare il flusso di danaro del narcotraffico, delle estorsioni, delle truffe oltre che sfruttare alla grande gli appalti statali. Tutto il segmento nero diventava investimento vivo, costruzione vera: imprese edili, ristoranti, import-export”.
La sua decisione è passata quasi inosservata ma, criminali del calibro di Iovine, a fare questa scelta sono stati ben pochi, a maggior ragione affiliati ai clan di Camorra. Carmine Schiavone, che ha rivelato importanti particolari sul traffico dei rifiuti, era un boss importante – tra i “fondatori” dei Casalesi – però apparteneva alla vecchia generazione, ha deciso di “pentirsi” perché messo ai margini dai vertici dell’organizzazione.
Cosa ha spinto Iovine a pentirsi? Cosa spinge un capo di questo livello, uno che “manovra i fili” degli affari più importanti dei rapporti più delicati con la “zona grigia”, a collaborare con lo Stato?
È stato condannato all’ergastolo con sentenza definitiva al maxiprocesso Spartacus, insieme a Francesco “Sandokan” Schiavone e Michele Zagaria, quando lo andarono a cercare a casa sua nel ’95, era già sparito; considerato uno dei latitanti più pericolosi d’Italia, a differenza di Zagaria – soprannominato “il Monaco” per l’esasperata attenzione che dimostrava verso uno stile di vita frugale – Iovine non ha mai accettato una latitanza solitaria e ha continuato a seguire da vicino gli affari dell’organizzazione tra il Nord Italia e la Francia: che sia la paura di passare il resto della vita in una cella di 41-bis, dove ha già passato 4 anni, ad aver determinato una scelta così difficile?
D’altronde, come ha scritto Arnaldo Capezzuto, un giornalista che di Camorra qualcosa ne sa, “niente pentimento o rimorso di coscienza. Lui è un camorrista, il suo mestiere con decine di omicidi fatti e ordinati se l’è scelto con convinzione”. È certo che, come riporta Saviano, “ha figli giovani, attivissimi su Facebook, e che sono a pieno titolo nella vita sociale della borghesia casertana e romana, una figlia amica di presentatrici tv, importanti imprenditori edili da sempre a stretto contatto con il suo gruppo familiare e suo figlio Oreste che recentemente è finito in galera per traffico di droga, perché dopo l’arresto del padre ha voluto prendere in mano l’organizzazione senza averne davvero le capacità. Enrichetta Avallone, sua moglie condannata a 8 anni, gestiva la sua rete di comunicazione e il Ninno dovrà spiegare come mai un uomo dei servizi segreti le faceva da autista”.
Antonio Iovine proviene da una famiglia di Camorra e i suoi figli, molto amici di quelli di Sandokan, non sembrano essersi allontanati molto dal percorso tracciato dal padre. Quali scenari potrebbero aprirsi nei giochi di potere criminali, ma non solo, dell’Agro Aversano? Il silenzio dei boss – sepolti vivi al 41 bis – è un’ipoteca per la loro famiglia, per le loro generazioni future: questo “pentimento” potrebbe aprire scenari completamente inediti per un clan che, le dichiarazioni di Iovine sono esaustive su questo punto, gestisce un enorme sistema corrotto ma non da solo; “so benissimo di quali delitti mi sono macchiato, ma sto spiegando il funzionamento di un sistema dove la camorra non è la sola responsabile” ha dichiarato O ninno ai magistrati.
“C’erano soldi per tutti in un sistema particolarmente corrotto. C’erano dei sindaci che avevano interesse a favorire imprenditori collusi con il clan per avere dei vantaggi durante le campagne elettorali in termini di voti e finanziamenti. Non aveva importanza il colore del sindaco perché il sistema era operante allo stesso modo” così è cominciata la collaborazione di Iovine, quattro verbali sono stati depositati al processo in corso davanti al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere a carico del consigliere regionale Enrico Fabozzi e di alcuni imprenditori del casertano. Il controllo totale degli appalti, dei subappalti e la tariffa del 5%, le tangenti e la corruzione, le raccomandazioni e i favori: tutto questo sta assumendo dei connotati chiari, nomi e cognomi di autori e collaboratori di un sistema che fa capo a una mafia imprenditrice.
Iovine, ai magistrati, ha fatto un’altra importante ammissione: “eravamo io e Michele Zagaria al telefono, quel giornalista scriveva cose vere ma spiacevoli”. Carlo Pascarella, è un cronista che da 20 anni segue le vicende del suo casertano, nel 1998 riceve una strana chiamata in redazione: al telefono due uomini gli intimano di non dire più “cretinate”, dicono di essere i due superlatitanti Zagaria e Iovine. Dopo la cattura di Sandokan Schiavone, Pascarella, aveva scritto delle tensioni tra i due in vista di una “scalata al trono”: la notizia è di quelle che può destabilizzare gli equilibri, molto instabili, di un clan al quale è stata tagliata la testa. Per anni Pascarella venne accusato di essersela fatta da solo quella telefonata: alla fine i magistrati hanno ritenuto che, quelle ricevute, non fossero minacce ma semmai “rettifiche”.
“In quei mesi molti quotidiani mi definirono l’“incubo mediatico dei casalesi”, ma io non sono un eroe. Ho fatto il mio dovere di cronista per 20 anni e lo faccio ancora. Non sono come altri colleghi che hanno sfruttato la battaglia anticamorra per diventare parlamentari. Colleghi vicini a un certo schieramento politico, che hanno cavalcato l’onda di minacce molto inferiori alle mie. È legittimo, per carità, ma io non sono fatto così, e penso di avere più dignità, anche se lo faccio per pochi soldi” – ha detto Pascarella intervistato da Luca Rocca per Il Tempo – “credo davvero in quello che faccio. Ci metto il cuore. Ho una figlia di nove anni e voglio un futuro diverso per lei. Non ho mai pensato di mollare”.