The GOASTT. Back to the beatlesque seventies in Chicago
Un’odissea verso il Midwest, e l’approdo alla Lincoln Hall per assistere alla performance live di Sean Lennon e della sua compagna – di palco e di vita – Charlotte Kemp Muhl. Dieci giorni dal concerto dei The GOASTT nella “Windy City”, per una sera “so 70s” e sonorità “barrettiane”
di Valentina Palermi
su Twitter @ValPalermi
Non ci ho pensato su molto quando è stato il momento di prenotare i biglietti aerei, e in effetti la scelta di partire per Chicago anche solo per quattro giorni può sembrare una pazzia, un atto sconsiderato. Nonostante il poco tempo a disposizione, però, non volevo rinunciare ad ascoltare, e osservare, Chi-Town.
Impossibile non fare altrimenti nella metropoli dominata dal grattacielo più alto d’America – la Willis Tower – e dal maggior numero di ponti mobili disseminati sul fiume Chicago, con il Jazz Record Mart, negozio di musica Jazz e Blues più grande e più completo al mondo, a pochi passi dalla House of Blues, e sede di una delle cinque grandi orchestre sinfoniche statunitensi – diretta dal 2010 dal Maestro Riccardo Muti -.
Quando poi una sera, dopo aver ascoltato per caso dei brani dei The Ghost Of A Saber Tooth Tiger, ho cercato per curiosità info su eventuali tour, la loro tappa nella Windy City il primo giorno di giugno mi è sembrata più un segno che una casualità.
Ho quasi costretto Chiara e Roberto, che vivono lì, ad accompagnarmi alla Lincoln Hall quella sera. Quando entriamo, nella grande sala in fondo hanno già cominciato ad esibirsi i Syd Arthur, gruppo supporter che arriva dritto da Canterbury – e ce ne rendiamo conto presto quando il bassista Joel Magill invita tutti a scambiare due chiacchiere davanti ad una birra di lì a poco. Il riferimento allo psych-rock di Syd Barrett è celato nel loro nome, e si nasconde tra le note di un electro-dream-blues, movimentato dal violino di Raven Bush, giri di basso, vocalizzi e scale di Liam Magill, e l’energia della batteria di Fred Rother. Distonie sintoniche e psichedeliche, in cui ti sembra di respirare l’aria di Chicago e sentire le sue onde, seguire l’andatura dei suoi abitanti, le luci intermittenti dei grattacieli che si segnalano agli aerei, il fischiettare delle persone per strada, la durezza della metropoli e il volo dei suoi gabbiani.
Reminiscenze del rock dei Pink Floyd che avvolgono anche la musica dei The GOASTT, duo formato da Sean Lennon – sì, proprioilfigliodiquel John – e dalla sua compagna Charlotte Kemp Muhl. Un fattore esplicito quando al termine del concerto ci sarà uno “switch from basics”, e lei prenderà il posto del tastierista Jared Samuel al suo “digital Chamberlin” per una “epic exploration of Syd Barrett’s ‘Long Gone’”. Il duo originario si è ampliato, includendo anche Tim Kuhl – batteria – e Robbie Mangano – chitarra -.
È senza dubbio una sfida con il mondo, e con se stessi, convincere di essere più del “figlio di un Beatle”, soprattutto se si fa musica. Ma in compagnia di Charlotte, Sean apre quasi ironicamente con il brano forse più intriso delle atmosfere beatlesque e barrettiane che chiude l’album “Midnight Sun” – edito con la sua Chimera Music label -, infiammando e trasportando il pubblico rough di Chicago caricando le distorsioni della loro “Moth To A Flame”, tra cori angelici e armonici.
Lei ammicca felinamente attraverso le parole di “Xanadu”, tanto da sembrare la “lipstick anarchist” di cui canta, dando poi vita ad un divertente siparietto, uno scambio di battute in compagnia di Sean con chi li osserva lì sotto al palco – “secondo me l’animale che abbiamo visto era un lama” -, per introdurre “Animals”.
La voce suadente di lei traghetta al “Midnight Sun”, title track dell’album, nella quale le sonorità alterate e cupe rimbombano nelle viscere, così come ribollono i brani che attraverso medley si confondono e conducono in tranche.
Si riprende il respiro sui “Jardin Du Luxembourg”, brano prodotto da Mark Ronson, per tornare poi alla chitarra disperata, e all’immagine di lei un po’ Lolita, “breaking rules” come il “Poor Paul Getty”.
Oltre alla fama del collezionista d’arte, degli anni Settanta i The GOASTT incarnano un certo stile e le psichedelie, nonostante si sia spesso discostato dalla stessa idea, a favore piuttosto di un concetto d’interpretazione del “phenomenon of modernity” attraverso i suoi testi e della volontà di manipolare gli stili “in a modern way” con la sua musica, a tratti artificiosa – o artificiale, grazie all’uso di effetti ed eco sul microfono – ma ammorbidita da atmosfere boudoir.
Poco prima di lasciare il palco per l’encore, c’è tempo per cantare tutti insieme “Happy birthday to you” al chitarrista Robbie, contrapposta alle atmosfere di “The Devil You Know”, in cui l’ombra della voce di Charlotte si mescola alla profondità della batteria di Tim e fa da contraltare alla limpidezza di quella di Sean.
Tornano subito dopo “on stage”, per suonare “the very first song me and Charlotte wrote”, la delicata e sussurrata “The World Was Made For Men”, che si conclude con graffi e rullate, lasciando tutti in preda ai flashback e a quel sentimento di “haunting melancholia” che resta e accompagna il ritorno a casa.