Il tracollo della politica estera USA
Secondo un sondaggio della NBC e del Washington Post, il consenso attorno ad Obama ha raggiunto il record negativo: la Casa Bianca paga le sue discutibili scelte geopolitiche in questi cinque anni
di Emanuele Martino
Soltanto il 37% degli americani si dichiara soddisfatto della politica estera di Barack Obama. A rivelarlo è un’indagine condotta dalla NBC e dal Washington Post, da cui emerge una chiara sfiducia che, complice la contingenza economica sfavorevole, contribuisce a far crollare la credibilità del Presidente.
Rimane difficile valutare positivamente l’operato degli USA nello scacchiere globale. Obama si è trovato ad esercitare il suo compito nel contesto peggiore, per un presidente in carica: una violenta crisi economica interna a cui dover far fronte e uno scenario globale dove gli equilibri non rispondono più al vecchio ordine di grandi e piccole potenze. Le esigenze multipolari di una geopolitica in continuo cambiamento hanno richiesto alla Casa Bianca di rielaborare alleanze, strategie, convergenze d’azione, di cui l’America voleva essere portavoce.
A differenza del suo predecessore, che vedeva il “boots on the ground” una sempre valida soluzione, Obama si è reso subito consapevole che in politica estera a comandare sono il realismo e il pragmatismo. Una politica globale che eviti interventismi improvvisi, che sposi al contrario l’alleggerimento delle sue posizioni di influenza, in concerto con la multilateralità del dialogo e delle diverse partnership. Tuttavia, come Bush sbagliò a scegliere sempre la forza e la voce grossa, così Obama fatica a dar vita ad una politica estera efficiente nel lungo termine.
La recente esplosione della questione irachena, con il feroce avvento dell’Isis, rappresenta in toto l’incapacità gestionale dell’amministrazione americana nel frenare il settarismo etnico e territoriale, e nel garantire continuità democratica ad un territorio che ha controllato per quasi dieci anni. Il costo della guerra in Iraq, calcolato in più di 900 miliardi di dollari, ha avuto il solo esito di lasciare un governo in carica corrotto come quello di Al-Maliki, e di regalare influenza regionale proprio a quel nemico che gli Usa hanno sempre osteggiato, l’Iran.
Gli appelli di Ali al-Sistani e la mano tesa di Rouhani verso la Casa Bianca, con l’intento di arginare la deriva terroristica, rafforzano l’asse sciita e la sua credibilità in quell’area. Le future decisioni americane dovranno rispondere quindi anche alle potenti monarchie saudite antagoniste dell’Iran, e naturalmente a Tel Aviv, sempre più contrariata dalla politica a stelle e strisce.
L’eco della questione travalica i confini e arriva in Siria. La dinastia alawita ora gode di una forte, seppur dubbia, legittimità elettorale e le truppe filogovernative rimangono in posizione di forza anche grazie ad Hezbollah e allo stesso Iran. Le forze ribelli, appoggiate militarmente ed economicamente dagli Usa, tuttavia, rafforzano i collegamenti strategici con le milizie jihadiste irachene permettendo loro di oltrepassare il confine siriano.
Un anno fa Obama delineava la linea rossa da non superare, quella che vietava l’utilizzo di armi chimiche da parte dei lealisti. Le armi chimiche sono state usate, l’intervento americano è stato scongiurato grazie alla diplomazia russa, ma la situazione tragica sul campo non cambia; oltre 100.000 vittime. Obama, dopo quasi quattro anni di guerra, rimane sconfitto anche in ragione delle aspettative da lui stesso create, quando affermava un anno fa che “la nostra risposta non è all’altezza della sfida”. Risposta che dopo un altro anno non è arrivata.
Washington ha inoltre dimostrato di aver perso prestigio e credibilità anche agli occhi del Vecchio Continente. Lo scandalo Datagate ha rispolverato vecchi dissapori tra la Casa Bianca e Berlino, e dopo le intercettazioni che evidenziavano lo spionaggio americano nelle cancellerie europee, la reputazione americana ha subito un grave colpo. Occorre sottolineare però che la pietra tombale rimane senza dubbio la vicenda ucraina.
Nonostante il clima da guerra fredda, Vladimir Putin ha sfidato direttamente sul campo la diplomazia americana mettendosi in posizione di forza una volta annessa la Crimea. Le sanzioni a danno di alcuni dirigenti russi si sono rivelate con il tempo inconcludenti e la matassa ucraina è ancora lontana dall’essere sbrogliata. Di fronte alle minacce americane Mosca nel frattempo stipulava un accordo storico sul gas con Pechino, spostando ulteriormente il baricentro geopolitico verso est. Un altro smacco per Washington e le sue prospettive.
E nel mentre noi italiani, tramite Eni, abbiamo rinegoziato i contratti sul gas russo. I russi in cambio pretenderanno qualcosa. C’è spazio per l’immaginazione.