Ciclismo, Tour de France: Nibali, emozioni all'italiana
Nel day after del trionfo tricolore davanti all’Arco di Trionfo, una riflessione su un campione capace di calamitarci come solo Pantani poteva fare
Le immagini indelebili da tramandare ai posteri, le lacrime pronte a cadere che risalgono verso l’occhio con dei rewind al salmone, la piccola Emma tutta infiocchettata che vuole mangiarsi il microfono di Alessandra De Stefano. Cronisti senza voce, parenti senza parole, ed un eroe senza macchia. L’abbiamo visto un po’ tutti, ieri, quel viso smaccatamente siciliano troneggiare davanti all’Arc de Triomphe, e se non tutti una buona parte: secondo i dati sugli ascolti usciti stamattina, più di un milione e mezzo di italiani incollati – nel pomeriggio di domenica 27 luglio, non esattamente il top della visibilità televisiva – davanti a RaiSport per l’arrivo della tappa finale (1.587.000, con il 14,5% di share), la passerella sugli Champs Elysées interrotta a 3 km dalla fine da un inno italiano che, dalle parti della Senna, non risuona poi così spesso.
È inutile snocciolare cifre. Le quattro tappe conquistate e gli oltre 7 minuti che il nostro Vincenzo Nibali ha rifilato al resto del gruppo sono già sufficientemente eloquenti. La lista dei nomi capaci di vincere tutti e tre i Grandi Giri (Merckx, Anquetil, Gimondi, Hinault, Contador, Nibali) mette semplicemente i brividi.
Il digiuno (16 anni) che durava fin dalle imprese scolpite nella pietra dal “Pirata” Marco Pantani è stato talmente lungo che tanti giovani appassionati, avvicinati al grande ciclismo dalle gesta dell’eroe nostrano, non avevano mai visto un tricolore sventolare lì, davanti all’Arco di Trionfo, in mezzo a baguette e nasi alla francese. Non avevano mai goduto – concedetecelo – mentre gli stessi nasi continuavano a ripetere che è stato “il Tour dei francesi”, perché sugli altri due gradini del podio sono saliti due prodotti locali, Pinot, il nuovo che avanza, classe ’90, e Péraud, il sorprendente vecchio arrivato tardissimo sulle bici da pro, classe ’77.
Attenzione: non biasimiamoli. Era dal 1997 che un francese non saliva sul podio, quel Virenque simbolo assoluto di legalité, égalité e fraternité (almeno fino a quando non si scoprì lo scandalo Festina, squadra per la quale correva da ben sei anni). Dal 1985, e da quella prima metà di Eighties dominata dalla sfida Hinault-Fignon, che un cugino d’Oltralpe non porta a casa la Grande Boucle davanti al proprio popolo. Anche in Italia faremmo lo stesso, così come abbiamo celebrato e considerato grandi risultati sportivi, soprattutto recentemente, quelle che anni fa sarebbero state delusioni. È il ciclo della vita e dello sport. Ed oggi il ciclo dice che il movimento ciclistico del Belpaese è in netta ripresa.
Quello del post-Pantani fu un decennio abbastanza magro, tolto qualche assolo (Paolino Bettini su tutti). Oggi invece Vincenzo Nibali è un dominatore, una vera star internazionale, quella che non è mai riuscita ad essere Ivan Basso, né uno come Stefano Garzelli, che proprio domenica nello studio Rai spiegava come squadra italiana significhi puntare tutto sul Giro a prescindere. Errore, di questi tempi, ma anche obbligo di tradizione. Ed erra chi critica l’italiano Nibali per ricevere soldi kazaki: senza l’Astana del mitologico gm Giuseppe Martinelli (uno che, mentre portava gli stessi Pantani, Garzelli, Simoni e Cunego a vincere Giri d’Italia in sequenza, ha fatto l’assessore allo sport per un paesino del bresciano, Rovato, per 9 anni) questo Tour non l’avrebbe mai vinto, book it.
Dietro Nibali, poi, c’è una generazione completa e ricca. Fabio Aru si è rivelato al Giro di quest’anno ed è pronto per vincerlo nel 2015, Matteo Trentin è una stella nel suo “ruolo” (gran lavoratore, versatile, superbo per i treni, ottimo finisseur in volate senza velocisti puri) ed ha la notevole caratteristica di esprimersi al meglio in situazioni di altissima pressione. Alessandro De Marchi è un attaccante nato con quattro polmoni e, se qualcuno non l’avesse notato durante questo Tour, vorrebbe dire semplicemente che non ha visto nessuna tappa di montagna. E poi tanti altri, come i velocisti Modolo e Viviani o l’all-around Daniel Oss, decimo nella cronometro di sabato, quando davanti alla tv di italiani ce n’erano più di 2 milioni (2.106.000, 18,4% di share) per vedere il sogno che diventava ufficioso.
Le voci maligne lasciamole ad inglesi, spagnoli e francesi. A Roma direbbero che stanno a rosicà. Ancora una volta: tanto quanto rosichiamo noi quando perdiamo la testa su arbitraggi e complotti anti-nazionalediqualsiasisport, o quando ci irritiamo perché la ricchezza di altri Paesi ci impedisce di vincere. Se un corridore come Chris Froome, tanto bionico nelle gambe quanto fragile nella testa ed incapace di guidare una bicicletta come ci si aspetterebbe da un ciclista professionista, cade per via di condizioni atmosferiche imponderabili, bisogna prenderne atto e ricordarsi che centosessantaquattro atleti sono riusciti ad arrivare a Parigi al ventunesimo giorno di gara senza nel frattempo cappottarsi e rompersi qualche osso. Se un Alberto Contador già indietro di 2’34” dopo la prima tappa importante fa la stessa fine, mentre Nibali zompetta allegro verso la vittoria senza mai cedere o cadere, essere convinti del fatto che lo spagnolo “in condizioni normali avrebbe vinto” ha davvero poco senso.
La realtà è che la storia, a volte purtroppo, a volte per fortuna, lascia indietro chi cade. Ma, a volte, premia chi lo merita. È il caso di un corridore che ha percorso gradualmente tutti i passi di un grande ciclista ed ora ha compiuto il più prestigioso e pesante. Che, come Pantani, riesce a calamitare davanti alla tv milioni di appassionati e non.
E qui questo articolo diventa anche personale: il mio entusiasmo per il ciclismo non aveva mai fatto minimamente breccia sulla mia partner, ma nello scorso weekend quest’ultima mi ha regalato gioie immense mostrando un interesse che nasce da quel sorriso sincero, appena accennato per via della timidezza, tipico dello Squalo. È la scintilla del campione senza tempo, e si riconosce al primo sbatter di ciglia. È la dedica alla figlia con il gesto del ciuccio, proprio nel giorno della presa della Bastiglia, mentre staccava tutti all’arrivo di (coincidenza?) La Planche de Belles Filles. È suo padre che si blocca commosso mentre rivanga il periodo di Enzo in Toscana e ringrazia tutti gli amici che se ne presero cura, che racconta di quando il figlio voleva smettere e lui lo prese a schiaffi per fargli cambiare idea. Storie tipicamente italiane, storie casalinghe e reali, pregne di significato e bontà come un cannolo alla siciliana. Con la speranza, mascherata in convinzione, che quel cannolo fosse pienamente pulito: grazie Vincenzo.