“Cancellami, o Google, le gesta”: il canto del Diritto all’Oblio
Privacy e Rete: il delicato rapporto tra diritto di cronaca e riservatezza. Per la Corte di Giustizia dell’Unione Europea la responsabilità è del motore di ricerca
di Martina Zaralli
MAIUSC+CANC: eliminazione immediata. Nel naufragio cibernetico delle informazioni, questa pare essere la richiesta più diffusa che traccia, così, i profili di un nuovo diritto: il “Diritto all’Oblio”.
Figlia della democrazia 2.0, tale prerogativa è un’ulteriore tutela alla privacy dell’utente o, più in generale, dell’individuo. Essa impedisce la diffusione di informazioni, salvo necessità di cronaca, che ne possano ledere il buon nome: condanne, precedenti giudiziari e simili. Dunque, il Diritto all’oblio è una sorta di Cerbero che, con le sue tre teste di dignità, reputazione e onore, si atteggia a censore e guardiano della porta di accesso all’informazione digitalizzata.
La leggenda, oggi, è diventata realtà, e si è materializzata nella sentenza della Corte di Giustizia UE del 13 maggio scorso. L’accezione del Diritto all’oblio deve essere identificata nella rimozione di link che rimandino a informazioni pregiudizievoli circa fatti accaduti in passato, quindi, non più rilevanti. Aspetto che meglio si coniuga, se vogliamo, con la suggestione che il nome del diritto produce.
Problemi, giuridici e non, sorgono proprio in quest’ultima direzione: al divieto alla divulgazione, si aggiunge un vero proprio diritto/obbligo di rimozione dell’informazione. Ciò, inevitabilmente, è destinato a ripercuotersi all’interno di un aspetto sociologico del fenomeno: il tutto mal si sposa con la percezione di Internet come un archivio globale di dati e notizie.
Incongruenze cibernetiche non risolte dalla sentenza UE dove è ben specificato solo l’obbligo del motore di ricerca di sopprimere, dall’elenco dei risultati, i collegamenti verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni relative ad una persona, anche quando, la pubblicazione delle suddette informazioni sia di per sé lecita.
Gli assunti normativi sui quali poggia la statuizione sono contenuti nella direttiva 95/46/CE (artt. 2, 4, 12 e 14): la soluzione comunitaria, dunque, risolve il tutto qualificando l’attività di indicizzazione (ossia memorizzazione e messa a disposizione) di notizie da parte del motore di ricerca come trattamento di dati personali, il cui uso/abuso è fonte di responsabilità del suddetto motore.
Ciò sembra semplicistico e riduttivo: si è voluta trovare una soluzione veloce e pratica al nuovo male, trasformando il motore di ricerca in un poliziotto cibernetico, che diventa censore di se stesso per evitare responsabilità di qualsiasi genere, sviando il vero problema: informatizzazione dell’utente, e giusto bilanciamento tra diritto di cronaca e riservatezza della persona.
Il 25 gennaio 2012 è stata proposta una riforma della privacy online, che dovrebbe portare all’approvazione, entro il 2015, per ogni Stato dell’Unione Europea, di una legge che conferisca agli utenti un maggior controllo delle notizie che li riguardano.
La soluzione, in attesa di sviluppi, può essere ravvisata nel significato di rilevanza. Considerando la velocità di creazione e fruizione di notizie digitali, ciò porterebbe ad una specie di oblio di fatto: in un mondo plasmato sulla repentina mutevolezza storica, sociale e culturale, ciò condurrebbe ad una diminuzione dell’interesse verso la ricerca di una determinata informazione, la quale non verrebbe cancellata, ma, più elegantemente, non-ricordata.