La mafia in diretta
È ricominciato ai primi di Settembre il “racconto” a puntate di Salvatore Riina. Le parole intercettate sono state diffuse stranamente a ridosso della ripresa del processo sulla “trattativa” Stato-mafia
di Guglielmo Sano
Salvatore Riina non ha bisogno di presentazioni. Il boss detenuto nel carcere di Opera, a Milano, è rimasto tale e quale: era ed è sempre stato “la belva”. Potrebbe apparire diverso, cambiato, potrebbe essere persino compatito da qualcuno, d’altronde il “carcere duro” non è uno scherzo. Vecchio, stanco, sicuramente è provato Riina, ma è rimasto, e ancor di più ci tiene oggi a confermarlo, il capo “supremo” di una delle più crudeli e pericolose organizzazioni criminali che si siano mai conosciute. Lui ha contribuito non poco ad accrescerne la fama in questo senso.
Detto questo possiamo subito escludere che le parole riportate nel testo delle intercettazioni, captate dalla DIA tra l’Agosto e il Novembre del 2013 proprio nel carcere milanese, non siano i deliri di un anziano in preda a una comune demenza senile. Tanto per sgombrare il campo dagli equivoci: un capo mafioso di quel calibro non parla mai “a caso” o “per caso”. Non si voglia intendere questo come un dettaglio volto a stendere un velo “mitico” su Cosa Nostra, è semplicemente l’espressione di una forma mentis, inculcata già ai “gradi inferiori” dell’organizzazione.
“Meno si parla più si campa” non è solo un luogo comune, il mantra di un’omertà “da fiction”: il “silenzio” per un’organizzazione di questo tipo equivale alla sopravvivenza sì, ma risponde anche a delle dinamiche che facilmente si potrebbero collegare a un “codice”. Gli “spazi bianchi” contano più delle parole nel “discorso” di un mafioso, così ci si comunica le “informazioni”. “Omettere” è “ordinare” nella logica criminale, nel senso di “mettere in ordine” cioè gerarchizzare le cose, i fatti, le persone. Le “parole”, invece, servono quando si vuole parlare con gli “altri”, con quelli “fuori”.
Un boss di Cosa Nostra, come è ancora Totò Riina, sempre un uomo rimane, sia chiaro. Un uomo si può ammalare, può andare “fuori di testa”, può redimersi per ragioni intime e misteriose, ma in quel caso o scatta un’autocensura quasi “programmata” poiché “introiettata” sin dalla tenera età o intervengono i familiari per timore della propria vita, in difesa dei propri interessi. Spesso possono essere coinvolti medici specializzati (psicofarmaci, referti screditanti etc…) oppure si passa direttamente all’eliminazione fisica, parziale o totale che sia. Insomma parole “a caso”, “per caso” difficile che se ne dicano.
Con la situazione giudiziaria che si ritrova, nella condizione carceraria in cui versa: perché Riina si “permette” di parlare? E ancor più specificatamente: perché a Riina è “permesso” parlare? Benché il Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia Rosy Bindi non sia d’accordo, è molto probabile che Riina sappia di essere ascoltato. Il “capo dei capi” probabilmente sa di essere sotto controllo nei momenti che passa insieme ad Alberto Lorusso, ex boss della Sacra Corona Unita (mai chiarita la sua reale identità: forse agente infiltrato dei servizi, ndr), “dama di compagnia” del boss corleonese durante l’ora d’aria. “Riina sa di essere ascoltato”; anche se fosse? Ricordiamo quanto già detto: le parole servono per comunicare “all’esterno”, a chi non “è” di Cosa Nostra.
Rosy Bindi ha detto che in altre occasioni “quando poteva immaginare di essere intercettato non ha parlato”. Ma figuriamoci se – nonostante lui stesso si sia definito “un quinta elementare” (sic!) – un criminale di questo calibro non immagini di essere “in compagnia” degli inquirenti, a maggior ragione in presenza di un altro “detenuto”. In realtà Riina non sta facendo altro che mandare messaggi; continuamente e in più direzioni, ma non esattamente alla n’do cojo cojo, anzi. Il piano è ben preciso, sicuramente legato alla contingenza, ma non esclude il raggiungimento di un unico risultato finale.
Passo indietro: le intercettazioni partono l’estate scorsa, una prima “tranche” è stata diffusa sui giornali nel Novembre 2013. Allora abbiamo saputo delle minacce al Pm Nino Di Matteo e al pool di Palermo che si occupa della “trattativa”, oltre ad agghiaccianti particolari sugli attentati ai giudici Falcone e Borsellino. Nella seconda “tranche”, depositata agli atti del processo il 21 Luglio (ultima udienza sulla “trattativa” prima della pausa estiva) e pubblicata sui giornali solo a inizio Settembre, abbiamo appreso dei “250 milioni versati a Cosa Nostra da Berlusconi ogni 6 mesi”, dei contatti con Marcello Dell’Utri, una “persona per bene”, delle minacce a Don Ciotti e della versione di Riina su Andreotti (i due si incontrarono, ma non si baciarono dice il boss corleonese). C’è spazio anche per la “simpatia” nutrita nei confronti di D’Alema e della Santanchè, per esempio, e per “rivelazioni” sull’Agenda Rossa di Paolo Borsellino e sul delitto Dalla Chiesa e tanto altro ancora.
Nelle 1.350 pagine di resoconto, 76 colloqui in area socialità e altri 88 in area passeggi tra Riina e Lorusso, c’è anche un altro momento fondamentale. Riina a un certo punto smentisce che l’ex ministro Nicola Mancino, imputato di “falsa testimonianza” al processo, abbia avuto un ruolo nella “trattativa”, a differenza di quanto riferito più volte dal pentito Giovanni Brusca. “Ma che vogliono sperimentare che questo Mancino trattò con me?…loro vorrebbero così, ma se questo non è avvenuto mai!”, dice Riina. Un Lorusso sempre molto, forse troppo, informato su inchieste e processi poi lo incalza “vogliono confermare che c’è stato questo collegamento”: Riina icastico ribatte: “Si, si ma se non c’è stato”. Era il 12 Agosto 2013.
Al momento le “dichiarazioni” di Riina non sono oggetto del dibattimento, in quanto nessuna delle parti, finora, ne ha chiesto l’acquisizione. “È solo un modo per mantenere alta l’attenzione in vista della riapertura del processo” dicono dalle difese del Generale Mori e dello stesso Riina. Tuttavia il Presidente della Corte di Assise Alfredo Montalto proprio il 25 Settembre, alla riapertura del processo sulla “trattativa”, deciderà se ascoltare o meno come teste il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che nelle intercettazioni Riina apostrofa con la parola “berrettone” (traducibile approssimativamente con il termine “voltagabbana”, ndr).
Il Capo dello Stato verrebbe sentito non al riguardo alle famose telefonate avute con Mancino ma in merito alla lettera inviata dal Colle nell’aprile del 2012 all’allora Procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito in cui si esponevano lamentele dell’ex Presidente del Senato. Già dalle deposizioni del Presidente del Senato Pietro Grasso e del segretario generale del Quirinale Donato Marra è emerso come Mancino nei mesi tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 fosse molto preoccupato per le indagini della Procura di Palermo.
Forse è un “audio-papello”, come sostiene l’ex magistrato Antonio Ingroia, quello di Riina? Che il boss sia in cerca di nuove alleanze per una “rifondazione” di Cosa Nostra? Che le sue parole siano messaggi in codice per i protagonisti della “trattativa”? Riina sta forse cercando di interferire col processo? C’è qualcuno “dietro” di lui?