Venezia71, non si rischia più
Premi meritatissimi a Roy Andersson e Joshua Oppenheimer ma deludono le esclusioni del Leopardi di Martone e del Pasolini di Ferrara. Resoconto di un Festival senza picchi né abissi, senza vita
E così è stata archiviata anche questa 71esima Mostra del Cinema, senza troppe sorprese e novità, né particolari clamori o polemiche. Già l’annuncio dei film selezionati non aveva promesso alcuna grande anteprima, come ci si sarebbe potuto aspettare da un Festival del calibro di Venezia, ingannata da New York e Toronto. Ma in fin dei conti non è neanche stata data grande risonanza alle nuove autorialità, alle sperimentazioni contemporanee del mezzo cinematografico.
Barbera si è voluto soffermare su nomi non troppo sconosciuti anche dal lato del cinema orientale (Tsukamoto, Xiaoshuai, Ann Hui) o del cinema più estremo, che quasi sicuramente non uscirà nelle sale, presente per esempio con Ulrich Seidl (Fuori Concorso) e Quentin Dupieux (Orizzonti), rispettivamente con In The Basement, un viaggio glaciale nelle cantine e nei segreti sotterranei degli austriaci, e Realitè, ulteriore folle e geniale esperimento di un cinema che gioca su se stesso del creatore di Mr. Oizo; ma la stessa sezione Orizzonti osa poco quest’anno, con titoli italiani deboli (se non imbarazzanti, come La vita oscena) e poca esplorazione dei territori extra-europei, mentre dai paesi anglofoni solo delusioni (Bypass di Duane Hopkins e Cymbeline di Michael Almereyda): i punti forti, oltre a Belluscone di Franco Maresco (Premio Speciale della Giuria Orizzonti), tragica ed esilarante indagine sulla natura mafiosa della scena neo-melodica meridionale, che si pone in parallelo con quella sulla trattativa Stato-Mafia del film della Guzzanti (Fuori Concorso), ma che non ha lo stessa originalità strutturale, lo stesso spirito parodistico del reale.
Mohsen Makhmabalf non ha deluso portando con The President, una parabola sui giochi di potere e sulla democrazia ispirata dalle primavere arabe. Ma il vero capolavoro della sezione arrivava da lontano, dall’Azerbaijan, con Nabat, un cinema fatto ancora di piccoli gesti quotidiani per una sofferenza vissuta con grazia e silenzio, dove fuori e dentro lo schermo rimbomba una guerra indefinita. Il Premio per il Miglior Film è andato però a Court di Chaitanya Tamhane (India), che vince anche il Leone del Futuro come Migliore Opera Prima.
Mentre, intanto, la Settimana Internazionale della Critica rimane l’unica sezione ad occuparsi dei veri nuovi panorami cinematografici (che fanno ben sperare) con esempi come Dancing with Maria, un documentario su una ballerina ultranovantenne ancora in attività, l’ottimo iraniano Melbourne, Terre Battue di Stephane Demoustier, prodotto dai fratelli Dardenne, la selezione delle Giornate degli Autori insiste su firme note (Larry Clark che con The Smell of Us propone praticamente un Kids 2014, comunque riuscitissimo come quello del 1995), Kim Ki-Duk e Christophe Honoré, andando fin troppo sul sicuro.
Forse però, e duole dirlo, i veri errori sono stati fatti sulla selezione del Concorso Ufficiale, tenendo conto anche di ciò che è stato lasciato Fuori Concorso: l’elevazione dei francesi su un piedistallo è ingiustificabile, data la qualità dei ben quattro film in lista (Alix Delaport assolutamente salvabile, inammissibile invece 3 Coeurs di Benoit Jacquot); gli americani si attestano sulla mediocrità (con 99 Homes di Ramin Bahrani e Manglehorn di David Gordon Green) mentre gli italiani questa volta inaspettatamente soprendono con il più sottovalutato del terzetto annunciato, ovvero Hungry Hearts (che vince entrambe le Coppe Volpi per le interpretazioni di Alba Rohracher e Adam Driver) di Saverio Costanzo, un validissimo esempio di come gli autori nostrani possano cimentarsi con le storie e la macchina da presa in maniera, finalmente, personale, qui con grandangoli e primissimi piani che risultano quasi spregiudicati rispetto al classicissimo Anime Nere di Francesco Munzi.
Neanche si può negare come Il Giovane Favoloso di Mario Martone abbia incantato l’intero pubblico con il suo Leopardi fragilissimo innamorato della vita, senza pessimismi né didascalie, ma solo immagini rivelatorie che insieme alle musiche (di Apparat) compongono i versi celebri. Anche Inarritu presenta uno dei lungometraggi più pieni di vita del Concorso, ma all’interno dell’intera filmografia del regista messicano, Birdman risulta forzatamente hollywoodiano, frenetico, urlato, visionario senza cuore.
I premi infine hanno rispettato senza colpi di scena le previsioni. A Pigeon sat on a Branch Reflecting on Existence di Roy Andersson è un Leone d’Oro atteso, consegnato più che altro per la grandezza della trilogia surreale di cui “il Piccione” (così ha malauguratamente deciso di chiamarlo la stampa italiana) cosituisce il terzo capitolo, forse il minore, dopo i commoventi You The Living e Songs Fron The Second Floor. Dovuto e necessario, e naturalmente meritatissimo, il Gran Premio della Giuria a Joshua Oppenheimer per The Look of Silence, ma dovuto anch’esso soprattutto perché contraltare perfetto di The Act of Killing (di cui vi avevamo già parlato qui): lo sguardo si rovescia dalle parte delle vittime del genocidio indonesiano, attraverso l’oculista Adi e il suo sforzo di focalizzare le azioni degli assassini e, forse, perdonare. E mentre il Leone d’Argento va ad Andreij Konchalovskji e al suo Postino dostoevskiano e alla sua comunità di personaggi reali ma dalla realtà completamente scollegati, il Premio Speciale della Giuria è assegnato a Sivas, opera prima turca sui cani da combattimento, di grande durezza ma anche crescente forza visiva e drammaturgica.
Sono scelte perfettamente istituzionali, che seguono precisamente la linea di un cinema d’impegno sociale che parte fondamentalmente dalla realtà. Scelte condivisibili, certo, ma forse senza troppo coraggio: così un film come Pasolini di Abel Ferrara che coraggiosamente e visionariamente affronta uno dei personaggi più importanti della cultura italiana degli ultimi 50 anni, universalizzandolo, accarezzandone il corpo, senza tentare di svestirlo troppo, e dando voce ai lavori che non ne hanno avuta, rimane tristemente fuori dai premiati (e anche il suo interprete Willem Dafoe).
“Rischiare di più” dovrebbe essere il motto per la prossima Mostra di Venezia: magari anche sfuggendo ai soliti nomi noti, ma è fondamentale tornare ad essere la maggiore panoramica sul cinema mondiale, in tutte le sue declinazioni e tendenze.