Roy Andersson e la trilogia “sull’essere un essere umano”
I tre ultimi film del regista svedese “Songs from the Second Floor”, “You, “The Living” e “A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence”, vincitore del Leone d’Oro a Venezia cosituiscono una trilogia esistenziale, culmine di una carriera lunga più di quarant’anni
It’s not easy being human
Svedese come il monumentale Ingmar Bergman, Roy Andersson è arrivato quest’anno al Leone d’Oro di Venezia con alle spalle una carriera iniziata più di quarant’anni fa, quando nel 1970 portò in gara al Festival di Berlino Una storia d’amore svedese, il suo primo lungometraggio, che si attestava ancora su un linguaggio e una storia d’amore classici e convenzionali, ma ricevette critiche entusiastiche per la promessa di una nuova firma importante nella scena svedese. Nel 1975 fu la volta di Giliap, il quale però si rivelò un disastro dal punto di vista economico che lo costrinse ad allontanarsi per un lungo periodo dai set cinematografici, almeno fino al 2000. Nel frattempo Roy gira numerosissime pubblicità, le quali fanno già presagire la progressiva adozione di una poetica ben precisa, dedicata alla sfera umana più sgraziata e alla sua fallibilità di fronte agli eventi.
World of Glory è un cortometraggio del 1991 che abbraccia definitivamente un discorso esistenziale e “trivialista”, come ama definirlo il regista, ovvero sulla tragicità del banale quotidiano, e un’estetica squisitamente pittorica che caratterizzerà tutta la sua trilogia “sull’essere un essere umano”, iniziata con Songs from the Second Floor (2000), proseguita con You, the Living e conclusasi (anche se gira voce di quarto capitolo) con il suddetto A Pigeon Sat on a Branch Refletcing on Existence.
Come i precedenti, anche quest’ultimo è composto da brevi sequenze, di cui la maggior parte narrativamente autonome, dei tableau vivant, quadri parlanti (molte delle scene in esterno sono in realtà girate dentro gli studios con scenografie realizzate in trompe l’oeil) che incorniciano situazioni quotidiane con tinte ironiche e non-sense contenenti un sentimento di morte costante. I personaggi che popolano i film di Andersson sono infatti vivi non-morti, dai visi appositamente inceratati di pallidezza cadaverica, che vivono passivamente la propria miseria, anzi, la cantano letteralmente, come in certe scene memorabili in cui musica e canzoni tradizionali irrompono nella realtà filmica. I non-morti abitano gli spazi comuni, inquadrati in tutta la trilogia, oltre le proprie case – stanze che sono rifugi anonimi, scoloriti come i loro inquilini – le strade metropolitane, gli uffici, le stazioni, e soprattutto i bar, tra i non-luoghi percorsi i prediletti per gli sfoghi a cuore aperto, spesso rivolti direttamente in camera.
In Andersson la famosa quarta parete è subito sfondata, lo spettatore è interpellato e adottato come confidente in un’esperienza simile all’osservazione di quadro di Hopper, come se uno dei personaggi si rivolgesse con lo sguardo verso di noi e prendesse la parola. Quella raccontata da Andersson è un’umanità bloccata tra l’incapacità di sfuggire alla morte e l’incapacità di vivere in una società che spinge, politicamente ed emotivamente, verso questa stessa morte: il movimento dell’uomo verso il futuro è un moto vano, portato avanti dalla battaglia per il denaro e la sopravvivenza fisica da una parte, e dall’inseguimento infinito della felicità.
Se in Songs from the Second Floor questo moto veniva rappresentato per esempio dall’immagine della città bloccata costantemente dal traffico, nell’impossibilità di andare avanti o indietro (“Tutti vanno nella stessa direzione. Viene da chiedersi dove siano diretti”), o dalla pazzia del figlio del protagonista sorta dallo scrivere poesie, in You, the Living l’ironia si fa ancora più dissacrante, chapliniana, e le aspirazioni possono risolversi solo nel sogno mentre la vita reale viene continuamente rimandata con la formula ricorrente “Domani è un altro giorno”; in A Pigeon Sat on a Branch Refletcing on Existence finalmente la morte viene ridimensionata, burlata, con un’ironia acora più accentuata, ma sempre tragica, come nel momento in cui l’uomo sul punto di spararsi riferisce all’interlocutore al telefono “sono contento che le cose vi vadano bene”, frase anch’essa che verrà ripetuta dai vari personaggi nel corso del film.
Nella trilogia di Roy Andersson il quotidiano è assurdo perché assurdo è il quotidiano e questa mancanza di senso circolare può essere vissuta solo attraverso l’ironia non-sense, non solo per mezzo dello sguardo del regista ma soprattutto attraverso gli occhi dei suoi protagonisti e della loro fragilità esistenziale, così amara e dolce (forse non troppo lontana dalla nostra).