Il modello danese della “Flexsecurity”
In questi giorni sovraffollati da tante chiacchiere, discussioni e diversi punti di vista sul fatidico tema lavoro, c’è chi guarda oltre confine per catturare idee e modelli stranieri per il rilancio dell’occupazione. La Danimarca è in cima alla lista
di Martina Martelloni
Dai palazzi di Roma, politici vari fanno sempre più spesso richiamo a strategiche esperienze straniere su quel lavoro che nel nostro Paese continua a dividere concettualmente, socialmente ed economicamente la società civile.
“Flexsecurity”, si chiama così il sistema made in Danimarca molto apprezzato dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi. Evoluzione e flessibilità, caratteristiche chiave di una struttura del mercato del lavoro invidiabile a molti.
Il termine coniuga il concetto di facilità – dato alle imprese nell’assumere così come nel licenziare – a quello del sostegno statale dato ai lavoratori che cadono nella disoccupazione. Capire come si fonda il sistema danese non è poi così complesso, capire se sia possibile importare tale impalcatura è cosa assai più contorta.
In Danimarca esistono tre livelli base sui quali si fonda il sistema lavoro: nazionale, regionale e locale, i quali a loro volta devono rispettare tre fondamentali peculiarità: flessibilità del mercato, sostanziosi ammortizzatori sociali e politiche attive per favorire il reinserimento del lavoratore.
Scavando nel retro del sistema firmato Copenaghen, per flessibilità si intende la possibilità per le aziende di assumere e licenziare a propria discrezione – unico vincolo: il termine minimo di preavviso. Il fattore tempo condiziona anche il dipendente, sul quale vige questo limite ma con margini molto più ampi, per il lavoratore danese il preavviso di cessazione del rapporto di lavoro è limitato ad otto giorni.
Con il concetto di sicurezza, secondo decisivo pilastro, il fine è garantire adeguato supporto economico ai lavoratori che hanno perso la loro occupazione. L’indennità di disoccupazione viene percepita solo dai lavoratori che abbiano sottoscritto un’assicurazione presso Fondi privati per la disoccupazione, ed in Danimarca più dell’80% dei lavoratori è assicurato presto questi enti.
Nessuno resta senza nulla, questo perché anche per quei lavoratori non iscritti al alcun Fondo assicurativo, possono ottenere un aiuto economico più limitato, attraverso la presentazione della domanda di indennità sociale.
Dal fronte delle politiche attive, la fase di reinserimento del lavoratore si attua attraverso l’operato intermediario dei cosìdetti “job centers”, i quali essendo dislocati all’interno dei Comuni, agiscono su interazioni e partnerships a livello locale per far incontrre domanda ed offerta con imprese, istituti di ricerca, onlus, parti sociali ed ong.
Il soccorso degli ammortizzatori sociali, non prevde l’attuazione della nostra dibattuta CIG (Cassa integrazione Guadagni), si agisce piuttosto attraverso un immediata mobilità assoluta. Il lavoratore ha l’obbligo di cercare attivamente un altro impiego o di feguentare corsi di aggiornamento, il tutto per non perdere il diritto ad usufruire delle erogazioni.
Il successo del modello danese vanta una storia trentennale alle sue spalle che si applica su una popolazione di 5,6 milioni di abitanti. Ad alimentare l’applauso europeo alla Danimarca su come gestisce amministra e sviluppa il mercato del lavoro, è anche e soprattutto la forte e storica coesione sociale.
Fantasticando sui tempi attuali italiani nonché sul nostro stato di salute economico e sociale, l’ipotesi flexsecurity è un miraggio ancora poco realizzabile sul lungo termine, poiché quello che manca sono le opportune risorse finanziarie ma forse anche un reale trampolino di lancio pe ril cambiamento ed il rinnovamento.