L’Ocse costretta a rivedere le proiezioni sull’Italia
Dieci anni e diverse riforme. Adesso però, un errore di calcolo rimette in discussione le carenze del mercato del lavoro italiano
di Mattia Bagnato
Nonostante i dissidi interni alla maggioranza, la riforma del mercato del lavoro introdurrà, finalmente, le modifiche richieste da Ocse e FMI. Jobs Act e contratto a tutele crescenti: ecco le punte di diamante di una strategia volta a favorire, anche in Italia, quella flessibilità ritenuta l’unico antidoto alla crescente disoccupazione, capace di riportare il nostro paese al passo con i più sviluppati dell’euro zona.
Peccato, però, che i dati su cui hanno lavorato fin dagli anni ’90 i ricercatori dell’Organizzazione parigina, si sono rivelati sbagliati. Falsati, sembrerebbe, da un errore di calcolo che, nel corso del tempo, ha consolidato l’idea per la quale il sistema occupazionale italiano fosse eccessivamente rigido. Un luogo comune, che ha finito per condizionare le scelte politiche degli ultimi anni.
Tutta colpa del TFR – Scusate, ci siamo sbagliati. Queste parole, che non sentiremo mai pronunciare, sono il sunto di più di vent’anni di ricerche fatte dall’Ocse. Studi e proiezioni che hanno evidenziato come, nel nostro paese, ci siano troppi vincoli al licenziamento e un mercato del lavoro oltremodo bloccato. Però, a dieci anni di distanza, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico sembra ritornare sui suoi passi, correggendo i dati.
Pensare che per anni, sia Banca Italia che Maurizio Del Conte (studioso di diritto del lavoro alla Bocconi), avevano provato, invano, a far notare l’errore. Un equivoco dipeso dall’erronea convinzione che quello che in Italia viene chiamato “Trattamento di Fine Rapporto” sia, in realtà, una sorta d’indennizzo per il licenziamento. Inutile dire che le due cose non ci “azzeccano” niente.
Contratti standard – Oggi la questione dei livelli di protezione è ritornata alla ribalta, strettamente connessa con il superamento dell’articolo 18. Un coro di voci, che si levano unanime da tutte le organizzazioni economiche comunitarie e internazionali. Fin qui niente di nuovo. Se non fosse che, in seguito ad un ricalcolo, svolto dalla stessa Ocse, emergerebbe con chiarezza come, in Italia (2,51), il mercato del lavoro non è poi così rigido. Molto meno di quello tedesco (2,87), olandese (2,82) e, addirittura, svedese (2,61). Non tre paesi qualsiasi, ma tre pilastri del welfare state. L’ulteriore conferma arriva, se ce ne fosse bisogno, dalle tutele previste in questi paesi per i contratti a tempo indeterminato. Infatti, in Germania e nei Paesi Bassi (uno dei paesi della c.d. flexsecurity) prima di licenziare, il datore di lavoro ha bisogno dell’autorizzazione da parte della rappresentanza dei lavoratori, della PA o del tribunale del lavoro.
Contratti a tempo – “Il reintegro crea lavoratori di serie A e lavoratori di serie B” è una cosa sulla quale si può discutere. Di sicuro c’è, come fa notare ancora l’Ocse, che se in Italia esiste un punto debole, questo va ricercato nei contratti a tempo determinato, una vera e propria “fabbrica” di lavoratori di serie B. La protezione offerta dalle regole che disciplinano questa tipologia di contratto, infatti, fanno del nostro paese il fanalino di coda: peggio di noi solo Spagna e Grecia. Un condizione, quella presentata dall’Ocse, che sembrerebbe smentire definitivamente quanto sostenuto per anni da molti economisti. Infatti, dalle tabelle dell’organizzazione parigina, emergerebbe come in Italia l’indice di protezione è di poco sopra la media europea (2 contro 1.75). Una percentuale, comunque, molto al di sotto di quella francese (3,63) e norvegese dove, tra le atre cose, è previsto anche il reintegro.
Flessibilità – Una corsa alla flessibilità, quindi, che ha interessato il nostro paese fin dall’introduzione del Pacchetto Treu nel 1995. Si smaschera, così, un altro luogo comune, quello che vuole l’Italia come il paese “rigido” per eccellenza, dove, paradossalmente, i vincoli che ricadono sul datore di lavoro nel caso volesse ricorre ad un contratto a tempo determinato, sono minori che in altri paesi. Un paese dove lo stesso indice è passato da 4,75 (1997) a 2 (2012/2013).
Questa rigidità è stata usata, e continua ad essere usata, come principale causa per la scarsità di investimenti stranieri nel nostro Paese. Tanto scarsi, da aver costretto Matteo Renzi a prendere il “primo volo possibile”, direzione United States. Obiettivo del tour americano è di rassicurare tutti, Marchionne compreso, che il Governo sta facendo tutto il possibile per invertire il trend.
Processi – A questo punto una considerazione sembra essere obbligata: se non è la flessibilità a spaventare gli investitori stranieri, cosa sta facendo scappare i capitali? Secondo Reyneri, la causa principale sarebbe la durata dei processi. La storia che si ripete, quindi. In Italia, infatti, la durata di un processo è in media di 24 mesi, 12 mesi in più rispetto a Francia e Svezia. Una sorta di cammino di Santiago, invece, rispetto alla Germania, dove durano circa 4 mesi, e dove si ricorre in appello, solo, nel 5% dei casi, contro il 60% dell’Italia. Dopo di noi, solo, Repubblica Ceca e Slovacchia.
Una domanda, allora nasce spontanea: la modifica delle tutele previste dall’articolo 18 riuscirà veramente a risollevare una situazione occupazionale disastrosa? O finirà per produrre ancora maggior precariato?
(fonte immagine: http://www.liquida.it/)