La Cina non se lo può permettere
Gli studenti di Hong Kong chiedono una maggiore autonomia nella partecipazione politica della regione amministrata da Pechino, ma le proteste di Occupy Central potrebbero non condurre all’esito sperato
di Emanuele Martino
La regione amministrativa speciale di Hong Kong, ex colonia britannica, gode formalmente di ampia autonomia eccetto in ambito Difesa ed Esteri. Alle porte di uno stato dove un miliardo e mezzo di persone non può votare, dove il web è ripetutamente censurato, dove i lavori forzati (laogai) sono ancora perfettamente legali, e dove il suffragio universale è argomento obsoleto, quella di Hong Kong è un’oasi nel deserto.
Le istituzioni democratiche tuttavia sono mutilate: l’elettorato può scegliere solo metà del Parlamento locale mentre i restanti sono nominati da associazioni e corporazioni che rispondono in larga parte a Pechino. Nel corso della sua storia recente, l’unico partito a lottare per elezioni libere è stato il Partito Democratico fondato dall’avvocato e attivista Martin Lee, che nel tempo ha incassato ampio consenso dalle parti più progressiste e liberali della regione.
I fatti di Hong Kong non devono essere fraintesi quale ennesima protesta di stampo indipendentista: i movimenti studenteschi chiedono principalmente un Parlamento pienamente elettivo con la possibilità (e la libertà) di scegliere il proprio candidato già dalla prossima chiamata alle urne.
L’errore di Pechino in questi anni è stato quello di lasciare la politica ai tycoon locali – nella maggior parte dei casi businessmen e affaristi. Il corpo elettorale in questo senso non ha spazi di partecipazione né di dibattito. Lo scrive anche Federico Rampini di Repubblica tra le pagine del Secolo Cinese: “per controbilanciare la popolarità del Partito Democratico, Pechino si appoggia su due constituencies fedeli: una è la DAB, che tradizionalmente cerca consensi tra i lavoratori con un programma sociale di sinistra. L’altra è il partito liberale della destra economica, la corporazione dei tycoon locali, allineati con il regime comunista cinese in nome del quieto vivere e degli affari (..) Questi capitalisti locali sono sempre pronti a vendere le libertà personali e le garanzie dello Stato di diritto in cambio della promessa che avrebbero continuato a far soldi”.
La Cina è da sempre allergica alle ondate di protesta: la sua malattia cronica non la combatte con dosi di antistaminici ma con il pugno di ferro. La rivolta di questi giorni non avrà successo, almeno come vuole Occupy Central: il famoso soft power di Pechino avrà la meglio tramite piccole concessioni politiche o economiche – che ad ogni modo non faranno pendere la bilancia sulla sponda democratica. In una regione come Hong Kong, dove gli affari e il business vengono sempre prima di tutto, Pechino se la può cavare evitando di schierare militari (da molti le proteste di Hong Kong vengono viste come possibilità di non ripetere gli errori di Tienanmen) o di intraprendere comunque scelte di forza come puntualmente avviene nello Xinjiang, o nel perseguitato Tibet.
La posta in gioco è troppo alta: il leitmotiv della non ingerenza negli affari interni di un altro paese – vero mantra cinese ravvisabile in campo internazionale e non tra le mura domestiche – ha portato nel tempo ad un’ evidente reticenza da parte del PCC di commentare le diverse spinte secessioniste e i movimenti di protesta avvenuti nel mondo negli ultimi anni. Qualunque appoggio internazionale ad eventi di questo tipo potrebbe ripercuotersi sul fronte interno.
Il Partito Comunista non è il rappresentante di un corpo sociale, di un ceto, o di una categoria economico-politica: è la diretta emanazione dello Stato. Sono indivisibili. Perdere credibilità significherebbe trovarsi di fronte al nemico più pericoloso per un sistema a partito unico: il pluralismo politico.