Il “Senza Tempo” di Henri Cartier-Bresson
Il tempo delle emozioni attraverso le immagini di Henri Cartier-Bresson all’Ara Pacis di Roma
di Caterina Mirijello
Non è forse Henri Cartier-Bresson il tempo della coscienza? Non sto affatto facendo confusione, cito l’altro Henri (Bergson) per parlare di lui: Cartier-Bresson.
Separati da qualche decennio di differenza, Henri, il filosofo, teorizza il tempo dell’io, il tempo senza tempo, il tempo che non conosce durata in cui nulla è divisibile e quantificabile. E dicevo, appunto, Henri, questa volta il fotografo, non ha forse meglio di tutti espresso l’idea di durata di cui parla il suo connazionale?
Sono trascorsi 10 anni dalla sua scomparsa e so bene che ha poco senso parlare di tempo, ma da poco, nella Capitale, è stata inaugurata la mostra Henri Cartier-Bresson in cui circa 500 opere, istanti di vita, sono esposte presso il Museo dell’Ara Pacis. Un percorso lungo 70 anni che gli è valso l’appellativo di oeil du XX siècle, anche se prima di tutto Bresson è un cantore, un poeta.
Con la precisione scientifica di un matematico e la delicatezza leggera di un poeta, Henri sonda il mondo della pittura e del disegno. La fotografia è la sua certezza che sviluppa anche grazie ad una forte influenza surrealista. Amico di Breton, si abbandona ad un estetismo quasi automatico, in cui perfezione stilistica e fluttuazione concettuale introducono il “cantore” ad una realtà che via via, diventerà sempre più concreta e realista.
Avverso ai colori, il suo bianco e nero, quasi austero, spoglia il tutto del superfluo per donare l’essenziale di un’immagine che non trova stasi, che corre nella sua immobilità e che si oppone a qualsiasi logica.
Egli parla di esplosivo fisso – in cui il movimento nello spazio è tale da risultare anche il suo esatto opposto. Con questa tecninca paradossale parte per scoprire e raccontare il mondo, senza, però, perdersi nell’eccessiva diversità dei popoli ma ricorrendo sempre ad un linguaggio in cui le somiglianze sopraffanno le differenze.
Visita l’Africa, con la Leica in mano e Rimbaud nel cuore, scruta i volti pensierosi e assorti del Messico, rapisce la meraviglia e la curiosità dell’Albione in festa, la sensualità e l’euforia di una Cuba rapita da ideali. Narra la Francia, nelle sue linee a volte troppo geometriche o rotte da riflessi sull’acqua, o nella rilassatezza oziosa di un popolo che brandisce i suoi diritti e che vive ad occhi chiusi per raggiungere l’infinito. E’ il magico circostanziale di Bresson che dipinge l’abbandono estatico di alcuni suoi personaggi ma si trasforma in naturalismo quando gli ideali politici avanzano con prepotenza.
E poi i ritratti: i più difficili in assoluto. Bresson affermava: “Per me fare un ritratto è la cosa più difficile, è un punto interrogativo poggiato su qualcuno”. Ammettiamolo, placa l’anima leggere le sue insicurezze prima di ammirare lo sguardo inequivocabile, di un uomo ordinato di tutto punto, mentre distrae il proprio pensiero con un tiro di pipa.
Impetuoso e romantico, sottile e sagace, forte e provocatorio, senza tempo l’Henri Cartier- Bresson in un luogo che non ha mai conosciuto il tempo: a Roma presso il museo dell’Ara Pacis fino al 25 gennaio 2015.