“La voce degli uomini freddi” di Mauro Corona

Tempo di lettura 4 minuti

L’audace Corona ammalia i lettori con un nuovo romanzo che sa di fiaba e arriva finalista al Premio Campiello con la storia dei suoi uomini freddi

di Giulia Ciarapica

fonte immagine: libreriamo.it

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“Questo e altro succedeva lassù, nella terra degli uomini freddi, che da molti anni davano calore al paese nuovo. E lì stavano bene, ormai, si erano assestati e rassegnati, avevano capito che l’esistenza è un continuo andare dall’alto verso il basso come le valanghe, fino a trovare il fondo e fermarsi per sempre”.

In questo estratto è racchiuso il senso dell’intero romanzo di Mauro Corona, La voce degli uomini freddi, che è un po’ fiaba, un po’ storia, un po’ vita. Non aspettatevi di trovare una trama, un protagonista con nome cognome e problemi di cui sparlare, non ci saranno grida, schiamazzi, rancori da sedare, né tantomeno troverete le luci sfavillanti della città e il rumore che fanno le vite degli uomini di oggi, quello assordante che proviene dalla pochezza del nulla. No.

Questo magico cantastorie, dall’aspetto rude e folkloristico, è in realtà un poeta della realtà e della verità oltre che della memoria, quella memoria che, se non viene coltivata e concimata, rischia di finire seppellita sotto il peso della neve che cade ininterrottamente sulle case degli uomini freddi.

“Vi era in quel vivere la pace del mondo contadino e delle terre nascoste”: cosa avrebbe potuto desiderare di più la comunità di questi uomini e donne nati sotto la stella del gelo e cresciuti in mezzo ad una natura tanto ostile quanto benigna, tanto caparbia e inospitale quanto accogliente e sorprendentemente benevola?

Gli uomini freddi di Corona popolano un luogo votato alla disgrazia eterna, dove il torrente scorre senza badare alle montagne innevate, dove l’autunno tossisce dietro gli alberi, incurante delle voci dei morti che si aggirano per le vie di un paese incollato a se stesso, incollato al destino di un popolo che non scappa dalla morte, ma la aiuta ad essere meno dolorosa.

Questo romanzo è il custode fiabesco di tante storie: quella della donna che dopo trent’anni torna al paese e ritrova il ninnante che da piccola la faceva addormentare con le melodie della buonanotte, quella dei due amanti che litigavano di continuo e per questo, in un paese di uomini silenziosi e pacifici, erano destinati a badilare neve per tutto il giorno, o quella del giovane cercatore di cristalli, che scovò in una grotta proprio gli scheletri dei due amanti che avevano vissuto discutendo ed erano morti stretti in un caldo abbraccio.

Tutte queste storie, e molte altre, compongono il puzzle che ha trovato la sua linfa nel lungo racconto della Vita: questa è la storia di un paese, Erto, semidistrutto dal Vajont; è il paese di Mauro Corona, è il paese di un popolo che vive attraverso la memoria, tanto cara allo scrittore trentino che è riuscito ad imbalsamarla grazie alla scrittura.

Per salvare la voce dei cantastorie, di questi uomini che temono il futuro come dimenticanza del passato e che per questo costringono i giovani, i ragazzi, a riunirsi ogni sera e ad ascoltare i ricordi di ciò che ė stato, per salvare questa voce e quella invisibile ed impalpabile dei morti – che aiutano i vivi ad essere più vivi – occorre la scrittura.

Gli uomini freddi scolpiscono la loro storia in una grotta fredda e buia, in una lingua oscura e misteriosa, quella stessa lingua che, negli anni a seguire, quando il paese sarà completamente spazzato via dalla valanga, gli studiosi tenteranno di decifrare.

Nonostante le fatiche, nonostante le difficoltà, nonostante le vicende che si accavallano, e nonostante il tempo che scorre inesorabile, la neve continua a cadere sul paese degli uomini freddi. Cade leggera e spensierata, come il destino che picchia su di noi a legnate continue, come il destino che, imperterrito, ci fa sapere che è lì, pronto ad attenderci a fondo valle, là dove ogni cosa è destinata – appunto – a rotolare, perendo.

E allora non resta che sorridere di una silenziosa rassegnazione, mentre ci si abbraccia stretti in un grande girotondo “delle radici e della vita”, con le mani sporche di un miele che è il simbolo dell’appartenenza e del legame eterno: a ciò che siamo stati, a ciò che siamo e a ciò che saremo.

Con una scrittura coinvolgente e altamente poetica, questo aedo della modernità ci regala un romanzo pieno di descrizioni ed impregnato di passione. Attraverso la metafora della neve come destino e della natura, inospitale ed ostile, come vita, Mauro Corona torna con una nuova storia, in cui non ci sono omicidi come in Storia di Neve, e non ci sono neanche riferimenti autobiografici precisi ed espliciti come in Aspro e dolce, ma c’è la storia di un popolo, il suo, che è legato a sè e alla natura, con cui vive a stretto contatto.

Lontani da quelle città fumanti che “non costruivano più una cosa alla volta, con pazienza, passione e perizia, bensì tante in un colpo solo. (…) Insomma (…) facevano tanto di più ma forse non di meglio”, gli uomini freddi amano la Natura con la stessa discrezione con cui vivono, rassegnati alla disgrazia perenne, attorno alla quale sono riusciti a costruire un’esistenza serena, da tramandare ai posteri.

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3 risposte

  1. Marilou Barumi ha detto:

    Vivo in Atene…sono naturalmente Greca e sto aspetando il libro che ho ordinato……..di Mauro naturalmente…con una grande…..CORONA…….

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