Guerra all’Isis: le implicazioni culturali e religiose di Ankara
In un conflitto come quello contro l’avanzata jihadista, la componente religiosa rappresenta l’ago della bilancia. Superando il facile binomio sunnismo/sciismo, la Turchia rimane senza dubbio il paese che nella guerra anti-Isis soffre maggiormente il contrasto tra sfera politica e sfera religiosa
di Emanuele Martino
C’era una volta il laicismo kemalista, la controversa spina dorsale della moderna Repubblica turca nata negli anni venti grazie al processo di modernizzazione ed europeizzazione avviato da Mustafa Kemal Ataturk. La marginalizzazione del tradizionalismo religioso, colpevole di arretratezza culturale ed ostacolo allo sviluppo e alla crescita, comportò la sua sottomissione al controllo statale. La commistione tra politica e religione rappresenta la genesi di ogni vicenda avvenuta in Turchia per tutto il XX secolo, come in tutti i paesi musulmani.
Non esente da un percorso storico travagliato, oggi Ankara è governata dall’AKP, partito ormai al potere dal 2003 e capace, nonostante scandali e perdita internazionale di credibilità, di divenire vero e proprio padrone dello stato turco. L’ascesa di Erdogan ha riportato alla ribalta la questione islamica: l’attuale Presidente, oltre ad aver plasmato il suo partito su un’identità conservatrice e fortemente religiosa, è considerato da molti il fautore di un processo di rafforzamento sunnita dell’intera società turca. Elemento ravvisabile non solo nelle faccende interne ma anche in proiezione internazionale. Dall’abolizione del divieto di indossare il velo negli uffici pubblici e dall’obbligo di studio del Corano, si arriva alla problematica dello Stato Islamico.
La Turchia ha un ruolo da protagonista delle recenti vicende in Medio Oriente sia per la posizione territoriale, sia per un contesto geopolitico da cui risulta impossibile smarcarsi. Tuttavia la sua entrata nella coalizione anti-Isis è stata caratterizzata non da pochi problemi – e non tutti di carattere politico.
Erdogan si è approcciato alla problematica jihadista alternando dichiarazioni altisonanti con scelte ambigue: la sua riluttanza nell’intervenire drasticamente contro lo Stato Islamico è direttamente proporzionale al suo costante ostracismo verso le forze curde che combattono direttamente sul campo. Non solo ha paragonato gruppi come il PKK all’Isis ma ha accusato direttamente le cancellerie occidentali di precipitarsi una volta constatata la deriva dell’organizzazione di Al Baghdadi, ma di non aver mai mosso un dito contro i gruppi armati di Ocalan (capo del PPK e all’ergastolo).
Il motivo di questa scelta, secondo il leader dell’ AKP, è da ricollegarsi al fatto che il nome “Islam” appare nella sigla dei primi e non in quella dei secondi. Ulteriore tentativo di politicizzare la questione religiosa riguardo la coalizione anti-Isis viene direttamente dal giornale Yeni Safak, vicino alle posizioni del maggior partito turco: in un editoriale apparso il primo ottobre la testata avverte che in caso di entrata in guerra, Ankara potrebbe veder danneggiata la propria immagine di paese vicino alle istanze arabo-sunnite e che il suo appoggio alla causa americana possa essere equivocato e mal visto dai vicini mediorientali.
Questo aspetto viene ulteriormente evidenziato da Semih Idiz su Al-Monitor che riporta le parole di Ali Bulac, noto intellettuale turco, che scrive: “quella di oggi è una guerra dove i musulmani massacrano altri musulmani. E’ in corso un tentativo di dissestare la società islamica e di fomentare divisioni e settarismi etnici. L’intervento turco non piacerà né ai siriani, né ai curdi, né tantomeno agli arabi“. E’ sempre Idiz a citare un altro analista di stampo conservatore come Kenan Alpay, il quale vede gli Stati Uniti puntare esclusivamente al benessere delle monarchie dispotiche e allo smantellamento dei tutti i movimenti islamici (dai Fratelli Musulmani fino ad arrivare ad Hamas), auspicando un’uscita dal gioco da parte della Turchia.
Facendo riferimento alle diverse idee che circolano nell’ambiente conservatore, si può analizzare meglio la riottosità di Erdogan nel prendere parte in maniera più decisa all’interno della coalizione. Appare chiaro come le scelte politiche cedano il passo a considerazioni culturali e religiose, condivisibili o meno.