Portrait. Il vero specchio dell’Io è il volto dell’altro
Al MACRO il ritratto diventa il fulcro della XIII edizione di FOTOGRAFIA – Festival Internazionale di Roma, tra personali di altissimo livello e una collettiva molto articolata
C’è tempo fino all’11 gennaio 2015 per apprezzare la grande collettiva Portrait e una serie di prestigiose personali incentrate sul tema del ritratto, che diventa specchio della società contemporanea e strumento di analisi della stessa, come racconta Marco Delogu, direttore artistico di FOTOGRAFIA – Festival Internazionale di Roma, in scena al MACRO, il Museo D’Arte Contemporanea di Roma.
Sia l’imponente collettiva, composta dalle opere di un nutrito gruppo di autori italiani e internazionali che sono stati scelti da addetti ai lavori e nomi cult dell’arte, che le prestigiose personali di altissimo livello, sanciscono la declinazione che la mostra vuole dare al tema del ritratto, che viene inteso come “un gioco dove chi guarda vede sé stesso” come spiega Delogu.
Il tema del ritratto ha da sempre una valenza interdisciplinare ed è imprescindibile una sua lettura psicologica, a partire dal tema dello specchio. L’identità di ogni essere umano nasce con lo specchio, il primo dei quali è il volto materno, come ha evidenziato Donald Winnicott: nello sguardo della madre il bambino si vede e si riconosce. Questo rispecchiamento segnerà l’imprinting dell’immagine interna che ciascuno individuo ha di sé. Allo stesso tempo questa immagine non potrà mai essere esclusivamente autoreferenziale, perché l’identità, dalla sua formazione alla sua rappresentazione, è un processo che presuppone sempre l’Altro.
Per questo il ritratto non è soltanto la riproduzione delle fattezze del soggetto ritratto, non è semplicemente fermare nel tempo i tratti di un volto per sottrarlo allo scorrere del tempo e per regalarlo alla memoria, ma è soprattutto la possibilità di cogliere il tratto psicologico dell’individuo e con esso il suo vissuto interiore ed emotivo. In questo senso il ritratto diventa una chiave di lettura della società.
L’autore del ritratto è a sua volta rispecchiato nell’opera stessa, in un dialogo muto tra autore e soggetto fotografato. La mostra è densissima, sia per numero di autori coinvolti che per le numerose tematiche affrontate, e necessariamente il focus sarà su alcuni artisti esposti.
Here beyond the Mists di Alexandra Catiere, selezionato da François Cheval (direttore del Musée N. Niepce).
Malinconica è la sensazione lasciata da questi ritratti, come di qualcosa che è andato perso ma che allo stesso tempo aleggia ancora. L’artista rende le sue immagini eteree, portatrici di un senso ultimo che però resta inafferrabile, come tagliato fuori dalla cornice della foto stessa, e questa sensazione è intensificata dall’uso del bianco e nero.
My last day at Seventeen di Doug Dubois, selezionato da Alec Soth (fotografo). L’Irlanda è il set dove si muovono questi ragazzini, immortalati in quella fase dell’esistenza in cui l’infanzia cede il passo all’adolescenza, lasciando un senso di perdita e di fragilità. L’autore la definisce una non fiction creativa, intesa come uno strumento per interrogarsi su che cosa significhi al giorno d’oggi il Vero, la soggettività e la fotografia.
Hester di Asger Carlsen selezionato da Alessandro Dandini de Sylva (fotografo e curatore). L’autore prende un tòpos classico della fotografia, il nudo di donna, e lo utilizza per parlare del Vero attraverso la raffigurazione di soggetti reali che vengono trattati in maniera irreale. Le immagini mostrano un rovesciamento un po’ horror e decisamente surreale. Questi corpi che sembrano degli esperimenti umani finiti male sono disturbanti, perché sembrano reali per il modo in cui la luce si riflette su di essi.
Carlsen si interroga su quanto di costruito ci sia dietro a quei canoni estetici espressi in una foto nuda che ingenuamente è percepita come “senza artificio”. Il suo lavoro affronta il valore documentale della fotografia, di quanta verità può effettivamente veicolare una foto e di cosa sia moralmente ed esteticamente accettabile mostrare.
Nelle sale dello splendido edificio di via Nizza, sono numerose le personali imperdibili. Due su tutte.
The Beats di Larry Fink, prima mondiale a cura di Peter Benson Miller. L’artista, innamorato della cultura Beat, ha realizzato questi intensi ritratti all’età di 17 anni, quando si mise al seguito di un gruppo di artisti beat di seconda generazione. Fink aveva attraversato gli States in autostop, per poi approdare a New York City, al Greenwich Village, dove conobbe i ragazzi che poi sarebbero diventati i soggetti dei suoi scatti. Erano artisti, scrittori, musicisti, tutti esponenti di quella sottocultura underground anti-sistema figlia della Beat Generation.
Fink andò a vivere con loro in una sorta di comune, per poi seguirli nei loro spostamenti. La geografia di queste foto è un zig zag che parte da New York e arriva fino in Messico. La celebrazione della cultura on the road, sdoganata dal libro di Jack Kerouac, che celebrava l’esaltazione dello spirito vitale, non intrappolato da asfittici e anacronistici perbenismi si avverte in queste splendide immagini in bianco e nero.
Asylum of the Birds di Roger Ballen a cura di Marco Delogu è una raccolta di scatti ambientati in Sudafrica in una casa nei sobborghi di Johannesburg, dove sulla scena ci sono sia uomini che animali disposti in maniera teatrale a ricreare più una natura morta che un ritratto.
Si tratta principalmente di rifugiati e di pazienti con problemi psichici (asylum è il manicomio), di vagabondi, tutti accomunati dal vivere insieme ad uccelli o a ratti, tutte persone che vivono al limitare di una vita “normale”, come ci mostra il documentario che accompagna la mostra. Gli animali sembrano essere la personificazione di quegli istinti più irrazionali o di quelle parti della vita psichica più primordiali di questi individui stigmatizzati dalla società e banditi dalla stessa.
Ballen non si sente un fotografo socio-politico, ma il suo impianto narrativo è di tipo psicologico e le sue foto vogliono essere una dichiarazione sulla condizione umana, sulla mente umana. L’autore ammette che queste foto sono come un diario su se stesso, solo che questo se stesso si trova in un altrove.
Sono foto scure, disturbanti, ma per il fotografo sono anche catartiche. L’autore solleva la questione del Vero e di ciò che può essere oggettivo. C’è la realtà della macchina fotografica e c’è la realtà filtrata dalla mente del soggetto che fotografa.
Questa è una parte del lungo e intenso viaggio emozionale che propone FOTOGRAFIA al MACRO. E voi, non siete curiosi di scoprire quale sarà il vostro specchio?