Quando la scienza è microscopica e illuminante
Basata su organismi capaci di emettere grosse quantità di luce malgrado un ordine di grandezza infinitamente piccolo, la Nanoscienza presenta svariate applicazioni in ambito tecnologico, aerospaziale e soprattutto medico
di Mauro Iacovino
La nanoscienza è quella disciplina che studia le cosiddette ‘nanoparticelle’ e la loro relativa applicazione alla scienza medica, alle tecnologie wireless per le telecomunicazioni in campo aerospaziale, alla produzione di prodotti alimentari per migliorare la qualità nutrizionale e di prodotti industriali, per migliorare la resistenza dei prodotti.
La natura, il mondo, l’intero Universo sono costituiti da materia – quella materia che dà a ciascun oggetto la conformazione che ci è nota e con la quale interagiamo ogni giorno. La materia è costituita da molecole e queste ultime da atomi, che a loro volta sono formati da un nucleo costituito da ‘protoni’ e ‘neutroni’, attorno al quale ruotano gli ‘elettroni’, particelle in grado di generare fenomeni elettromagnetici.
I fenomeni elettromagnetici consistono nell’aggregazione per attrazione di più campi elettrici, trasformando l’elettromagnetismo in fotoni, vale a dire in luce, che si espande su infinite distanze ma in maniera proporzionale per tutto ciò che è soggetto alla sua illuminazione, secondo un processo di attrazione e incamerazione della luce dell’oggetto illuminato – come ad esempio nel sole, che illumina la Terra secondo un ciclo continuo di alba, giorno e tramonto con la medesima intensità di luce; oppure la luna, che rischiara la notte; o ancora il lampadario, che illumina la zona circoscritta del salone.
Ogni materiale presente in natura, dicevamo, è costituito da atomi. Attraverso gli elettroni che ruotano attorno a ciascuno di essi, l’intero Universo incamera ed emette luce su infinite distanze – ma in maniera proporzionalmente limitata e circoscritta a ciò che illumina.
Quando si verificano fenomeni naturali quali i temporali, le eruzioni vulcaniche, le stelle cadenti o anche le più semplici interazioni tra ambiente e ambiente, accade che gli atomi di un elemento si agglomerino con quelli di altri elementi, formando i cosiddetti ‘agglomerati’, che se si aggregano in maniera stabile senza disperdersi per via delle forze naturali, vengono definiti ‘nanoparticelle‘ – che possono essere composte da due a infinite quantità di atomi di diversa appartenenza.
Data la loro costituzione a partire da atomi di diversa composizione, le nanoparticelle presentano una serie di elettroni con una banda di riemissione multipla dell’elettricità, dell’elettromagnetismo, e quindi della luce – considerando che questa è più potente, istantanea e più ampia nel raggio di azione.
Le nanoparticelle più comuni sono: i ‘nanocluster’ (semplici agglomerati di atomi), le ‘nanopolveri’ (nanoparticelle costituite da particelle ultrasottili componenti le polveri, derivanti dall’ effetto di venti, fenomeni metereologici e cataclismi naturali) e i ‘nanocristalli’ (costituiti da elementi cristallini dovuti alla solidificazione delle nanoparticelle e che sono per eccellenza i più riflettenti la luce).
Le discipline più note in campo nanoscientifico sono la ‘nanotecnologia‘ e la ‘nanomedicina‘, atte a ingegnerizzare le nanoparticelle con fasci artificiali elettromagnetici generanti luce – in campo medico per la diagnosi e la cura delle malattie e nella telecomunicazione astronautica, per migliorare le telecomunicazioni e il viaggio interspaziale.
Per nanotecnologie si intendono tutte quelle tecnologie che comportano la progettazione, la caratterizzazione e l’applicazione di strutture, congegni, e sistemi agenti da nanoparticelle ingegnerizzate con le stesse caratteristiche di quelle presenti in natura, ma della rapidità risolutiva di un istante perché veicolati dalla luce sia su brevi che infinite distanze.
Le nanoparticelle ingegnerizzate sono i ‘quantum dots’, i ‘dendrimeri’, i ‘buckminster-fullereni, i ‘nanorods’ e i ‘nanopori’.
I quantum dots sono utilizzati principalmente nella nanomedicina: si tratta di nanocluster di forma tondeggiante composti da un massimo di cinquanta atomi nella cui parte centrale cava sono presenti elettroni, i quali emettono una fluorescenza di luce maggiore dei comuni coloranti usati in medicina. Qualora immessi nell’ organismo, possono raggiungere un qualunque tessuto e agglomerarsi con gli anticorpi. Intervenendo con una radiazione elettromagnetica nella zona in cui sono localizzati, emettono una luce che può essere visualizzata istantaneamente su uno schermo (Multiplex immaging), permettendo ad esempio la visualizzazione e la diagnostica di tumori malign.
Il dendrimero è anch’esso utilizzato nella nanomedicina e data la sua alta reattività alla luce viene esposto a più emissioni di fasci elettromagnetici che riflettono luce, cambiandone via via la forma: in virtù di tale ragione, sono utili come mezzo di contrasto per la risonanza magnetica, per l’imaging di farmaci presenti nell’ organismo e la rigenerazione delle cellule (ad esempio nelle malattie neurodegenerative).
I buckminster-fullereni sono costituiti da una sfera vuota al centro e attraverso lo stesso procedimento dei primi due possono essere inglobati nella zona vuota da farmaci con proprietà antiossidanti. Una volta immessi nell’organismo, possono essere guidati elettromagneticamente – per localizzarli presso la sede di una malattia e rilasciarne il farmaco per la cura della patologia.
E infine i nanopori, nel cui vuoto centrale possono essere inglobate singole cellule che mimano il rilascio naturale di nutrienti ed ossigeno utili alla sopravvivenza cellulare – inducendo un vero e proprio effetto domino di produzione di nuove cellule sane con le medesime proprietà di quelle immesse, e liberando la naturale produzione di insulina nei diabetici.
Già nel lontano 2004 l’industria nanomedica aveva fatturato circa 6,8 miliardi di dollari – con oltre 200 compagnie, 38 prodotti riconosciuti (che diventeranno 130 soltanto due anni dopo). Ciononostante, solo 3,8 miliardi di dollari sono stati investiti nella ricerca relativa al settore – sfavorendone applicazione concreta, riducendone la richiesta sul mercato, riservandone l’utilizzo ai pochi eletti dei ceti più abbienti.
La scienza delle nanoparticelle potrebbe trovare interessanti applicazioni anche in ambito tecnologico. Già nel 2011, l’Università di Edinburgo ha salutato la felice intuizione del Li-Fi, ossia del ‘Wi-Fi ottico’ (Li sta appunto per Light, Luce). Composto anch’esso da nanomateriali, il Li-Fi trasmette informazioni attraverso la luce grazie a speciali LED – permettendo una maggiore disponibilità nelle frequenze libere della luce (che per spettro di risonanza è più ampio delle frequenze radio) e aumentando così la precisione del segnale.
In campo aerospaziale, invece, potrebbe portare invece all’utilizzo di velivoli spaziali che usino motori aerospaziali riflettenti luce – che, divenedo un unico ‘raggio trainante’ della luce naturale del nostro Sole e dell’intero Universo, rischierebbero di viaggiare a una velocità prossima alla tanto ambita velocità della luce.
Universi finora sconosciuti, per l’uomo, esplorabili oggi grazie alla luce. Viaggiando alla sua velocità, beninteso.