Una “fiducia cieca” si abbatte sul Senato

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L’incontro sulla disoccupazione era un’occasione troppo ghiotta per farsela sfuggire, così Matteo Renzi ha deciso di “imporre” la fiducia sul Jobs act scatenando la bagarre in aula

di Mattia Bagnato

Il capogruppo della Lega Nord Gian Marco Centinaio (non presente nella foto) lancia il regolamento verso il presidente Pietro Grasso

Il capogruppo della Lega Nord Gian Marco Centinaio (non presente nella foto) lancia il regolamento verso il presidente Pietro Grasso

Doveva essere una passeggiata di salute, un souvenir da regalare ad Angela Merkel per dimostrare che il Governo ha tutto sotto controllo, invece, la fiducia sul Jobs act si è rivelata una santabarbara pronta ad esplodere da un momento all’altro. Urla, insulti e dimissioni hanno accompagnato il voto al Senato dello scorso mercoledì, uno spettacolo vergognoso che non fa bene al nostro paese. E pensare che Matteo Renzi si era fatto convincere ad allentare un po’ la corda, concedendo alla minoranza PD e ai sindacati la possibilità di tenere fuori dalla discussione l’articolo 18. Tutta fatica sprecata, a quanto pare, perché la fiducia passa, facendo tirare un bel sospiro di sollievo al Presidente del Consiglio,  ma la partita è tutt’altro che chiusa.

Così, anche se i numeri siano quelli che dovrebbe far stare tranquilli, con 165 sì, 111 no e 2 astenuti, le reazioni sono tutt’altro che rassicuranti. Nonostante le manifestazioni di approvazione ricevute dagli “ospiti” presenti a Milano, la prima fiducia della storia della Repubblica in tema di lavoro, più che per i contenuti sarà ricordata per aver marcato una profonda linea di separazione con la tradizione politica, storica e sociale della sinistra italiana. Una sterzata netta, che mette il Partito Democratico in aperta contrapposizione con i sindacati,  ribadendo una volta per tutte che il leader conta più del partito, ma soprattutto avvicinandolo sempre di più ai poteri forti, come dimostrano i colloqui che hanno portato Matteo Renzi da Londra a New York e il neonato club “Noi sosteniamo Matteo Renzi”.

Una rivoluzione copernicana: Matteo Renzi ha presentato così il nuovo testo del Jobs act. Quello che rimane però, dopo una giornata ad alta tensione, è una “fiducia ceca” concessa su una legge delega che sarà tradotta in norma. E il condizionale è d’obbligo, solo con i decreti legge che dovrebbero arrivare il prossimo anno. Per ora, il Governo si gode quel credito che il Presidente del Consiglio ha provato con tutte le forze ad ottenere sin dal vertice dello scorso giugno, e che sembra il vero obiettivo di questa fiducia. Una strategia studiata a tavolino, che avrebbe dovuto confermare che l’Italia sta facendo i compiti a casa. Tutta una questione di reputation, quindi, dove la riforma del lavoro appare sempre di più il grimaldello indispensabile per ottenere qualche concessione sul patto di stabilità. Così, anche se la forte opposizione in Senato ha rischiato di vanificare tutto, alla fine Renzi ha ottenuto la “sua” fiducia e si è potuto anche permettere il lusso di criticare alcuni “anacronistici” meccanismi economici.

Non è tutto oro quello che luccica –  I plausi sono arrivati un po’ da tutte le parti: Merkel, BCE e FMI fanno da contraltare ad una sempre più tesa situazione interna. Infatti, le contestazioni dell’ala sinistra del PD non accennano a rientrare, anzi, sembrano trovare, nella scelta di “imporre” l’ennesima fiducia, un nuovo slancio. Il prodotto di una manifesta insofferenza, questa si tipica della tradizione della sinistra italiana, che mal sopporta “le pressioni che piovono dall’alto”. A nulla, quindi, sembrano essere valse le parole del Capogruppo PD al Senato Luigi Zanda, il quale ha cercato di serrare i ranghi facendo ricorso al voto di appartenenza, così come lo spettro delle espulsioni di massa. La minoranza è in fermento e minaccia di “andare fino in fondo” la prossima volta, che in “civatiano” significa che alla Camera le cose si faranno molto più complicate.

Pippo Civati e Matteo Renzi (fonte immagine: lettera43.it)

Pippo Civati e Matteo Renzi (fonte immagine: lettera43.it)

Dividi et impera – Ecco il motto che meglio riassume la strategia del Governo. Il primo ha pagare pegno è stato lo stesso PD, poi è stato il turno di Forza Italia e ora tocca ai sindacati, messi l’uno contro l’altro in meno di un’ora di confronto ed impossibilitati a giocare una partita comune. Una strategia degna del migliore Kavin Spacey (il protagonista di House of Cards), uscita allo scoperto durante l’incontro di martedì. Così, mentre Cisl e Uil accettano di “svegliarsi”, come suggerito dal Presidente, ed aprono al dialogo, Susanna Camusso non vuole sentire ragioni: articolo 18 e demansionamento non si toccano. Troppo tardi, perché Matteo Renzi li ha già promessi all’Europa e ai suoi “amici” della City. Lo scontro è iniziato, quindi, e la Cgil “imbraccia le armi” della protesta di piazza e si unisce ai “compagni” della FIOM.

Ogni promessa è credito – In un contesto di tutti contro tutti, l’unico “fedele” alleato rimane Silvio Berlusconi, che ha mantenuto la promessa evitando di mettere i bastoni fra le ruote al Governo proprio nel giorno in cui si giocava tutta la sua credibilità. Ciò nonostante, un parte del partito rimane scettica, la decisione di lasciare da parte l’articolo 18  è stata letta come una forzatura voluta dalla minoranza PD. Ma la realtà delle cose non lascia molto spazio di manovra, così  FI “abbozza” e attende tempi migliori.

Poteva essere festeggiata come la seconda migliore fiducia in termini numerici, quella che spazza via tutti i malumori e ricompatta la maggioranza. Invece, il voto di fiducia di mercoledì ha rischiato di trasformarsi in un boomerang per il Presidente-segretario, ma ha anche ricordato a tutti chi è comanda. La minoranza PD, ormai stretta in un angolo, ha cercato, invano, di utilizzarla come un cavallo di troia, riuscendo solo provocare l’ira del “Capo”. Matteo Renzi lo ha già dimostrato, lui va dritto per la sua strada incurante delle contestazioni interne, e non importa se il Governo ottiene più consensi in Europa che in patria, perché la vera partita è proprio lì che si gioca, non contro Corradino Mineo o Pippo Civati. Certo, alla Camera le cose saranno un po’ diverse, ma finché il patto del Nazareno regge, il Governo potrà dormire sonni tranquilli.

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