“Quattro etti d’amore, grazie” di Chiara Gamberale
Con una storia che sembra d’amore Chiara Gamberale squarcia il velo dell’ipocrisia e mette in primo piano le insoddisfazioni delle sue protagoniste
“Ma tu ci pensi, Erica? A tutte le esistenze che potrebbero farci felici, se non fossimo sempre alle prese con la nostra?”.
Vi è mai capitato di andare al supermercato e di spiare la spesa di un’altra persona? O meglio, vi è mai capitato di volere la spesa di qualcun altro? E vi è mai successo di iniziare a fantasticare su quel qualcuno – sì, quello con la spesa perfetta e accurata -, credendo magari che la vita sia tutta lì, racchiusa in un pacco di farina tipo 1 (e voi non sapevate neanche che esistesse), in una confezione di cacao amaro in polvere, o, al contrario, in sei lattine di birra Heineken?
Forse a Chiara Gamberale sì.
Le due protagoniste di “Quattro etti d’amore, grazie“, Erica e Tea, hanno due vite a forma di alfa e omega, l’una dirimpetto all’altra: tremendamente lontane, amaramente vicine, antipodicamente compatibili.
Erica, imprigionata in un dolce ambiente familiare, moglie premurosa, mamma attenta, tanto severa con se stessa quanto amorevole con i propri cari, non ha la reale percezione di quell’ottundimento cerebrale che a breve si trasformerà in “sottovuoto”.
Tea, la signorina Fidelibus, l’attrice di “Testa o cuore” – e non è una soap, badate bene – , la borghese viziata che ha sposato un critico teatrale, Riccardo, ancor più viziato e borghese, semplicemente travestito da anarchico, è alle prese con un disordine morale, sociale ed emotivo che, forse, non troverà mai requie.
Le due donne, Erica, sfegatata fan di Tea Fidelibus e di “Testa o cuore” e Tea, sfegatata fan di Erica Cunningham, la mamma-moglie modello, a cui nulla sfugge, neanche il sorriso il lunedì mattina, loro due, esistenze inconsapevolmente intrecciate, si vedono quasi ogni giorno al supermercato. Ed osservano la spesa: Tea quella di Erica, Erica quella di Tea.
Nella spesa di Erica sono contenuti i buoni propositi della giornata, la tranquillità di una mattinata all’insegna della formalità, i sorrisi casti e maldestramente repressi in balìa di qualche ricordo contundente, la voglia di esplodere senza far troppo rumore, il dovere di mantenere sempre la calma, e quel grande, enorme, inarrestabile desiderio di lasciarsi andare. Alla vita.
Nella spesa di Tea ci sono un chilo di insicurezze, due “forse”, quattro “però”, le prepotenze di Riccardo, le ramanzine di suo padre, gli sbuffi della sera prima di andare a letto, le lacrime raggomitolate in fondo al cuore e tanta voglia di essere felice, felice come la signora Cunningham. E di avere una vita propria, come ce l’ha la signora Cunningham.
Ma la signora Erica Cunningham, quella vita, l’ha sempre sognata così, proprio così? Tea crede che sì, certo, l’ha sempre sognata così, proprio così. Ma quella vita sta bene addosso ad Erica, a lei solo, mentre per Tea c’è il niente, anche perché “niente è sempre meglio di qualcosa, per chi non può avere tutto”.
Il niente di Tea che è il tutto per Erica: una vita spesa a rincorrere un successo che aspetta paziente dietro l’angolo, un marito favolosamente strambo, con cui fare l’amore tutta la notte, tutte le notti, con cui bere champagne dopo gli esorbitanti risultati degli ascolti di “Testa o cuore” (che non è una soap, ricordatevelo).
E invece no, è tutto sbagliato, fin dal principio.
Erica imploderà nel giro di poco tempo, confusa da un Davide Morelli, ex compagno di liceo e fanatico anche lui di “Testa o cuore”, che la farà nuovamente sentire la Donna Erica, da una madre bambina, eternamente agganciata, nella sua isola di Formentera, ad una idea di amore sui generis, da un fratellastro, Eros, in cura psichiatrica e in realtà molto più presente a se stesso di tutto il resto della truppa, da un marito e da due figli – Viola e Gu.
Tea, invece, è in continua esplosione, cerca una pace che le sfugge di mano, desiderosa di quella tranquillità ammaliante che resta attaccata alla signora Cunningham – e da lì sembra proprio non volersene andare -, mentre oscilla tra portafogli rubati, successo televisivo, un’ estenuante lotta contro il cibo, un Anthony per amante (personal trainer, americano ma non troppo, napoletanizzato quanto basta a farla sentire a casa) e Fabiano, l’amico gay di sempre, rassicurante e comprensivo.
Un romanzo – di certo parzialmente autobiografico – dalla struttura originale, dai tratti leggeri e svolazzanti, intriso di grande semplicità e trasporto emotivo.
Quello della Gamberale, che apparentemente potrebbe sembrare un banale romanzo d’amore, è in realtà un racconto tanto fruibile quanto sofferto: tematiche importanti – come quelle del difficile rapporto con il cibo, la ricerca disperata di un affetto sincero, l’oppressione familiare che insabbia identità traballanti – adagiate tra le righe soffici di un lessico piacevole.
Pensieri brevi, riflessioni puntuali. Una grande profondità concettuale sapientemente incastrata in un mosaico di dolci, ironiche, e a volte anche spietate, parole di verità.
Piacevolmente toccante.
Chiara Gamberale
Quattro etti d’amore, grazie
Mondadori, 2013 pp.238