“Il giovane favoloso” di Mario Martone
Nelle sale cinematografiche italiane “Il giovane favoloso” di Mario Martone, presentato quest’anno al Festival del Cinema di Venezia
Finalmente, dopo una lunga attesa fatta di grandi speranze, Mario Martone porta in scena la vita di Giacomo Leopardi, uno dei più grandi poeti in Italia e fors’anche nel mondo.
Il film narra la storia del recanatese, dalla gioventù alla morte, ripercorrendo le tappe fondamentali della sua travagliata vicenda personale: l’adolescenza passata interamente sulle “sudate carte”, che arricchiranno la sua poetica, ma che tanto toglieranno alla sua già pericolante salute, la mancata fuga da Recanati a 21 anni, il soggiorno fiorentino, la breve sosta a Roma ed infine l’approdo napoletano, dove troverà la morte nel 1837.
Fin dalla scena iniziale ci troviamo catapultati nei luoghi clou della vita del poeta: Paolina, Carlo e Giacomo si rincorrono mentre costeggiano quella siepe che “da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”.
Martone dà nuova vita alla grande complicità che intreccia le vite dei tre fratelli, uniti nell’affetto ma anche nelle attività familiari: lo “studio matto e disperatissimo” era per Monaldo (magistrale interpretazione di Massimo Popolizio) qualcosa di imprescindibile a cui i figli dovevano essere avvezzi, fin da tenerissima età.
Il regista sceglie di soffermarsi meno sull’infanzia di Giacomo, regalandoci solo qualche scena in cui i tre fratelli danno sfoggio del loro sapere durante una sorta di esame scolastico finale, tenutosi all’interno delle stanze della biblioteca paterna con tanto di pubblico ad applaudire, e predilige dunque il periodo dell’adolescenza.
Il conflittuale rapporto con il padre Monaldo, quello assente con la madre Adelaide, quello intellettualmente vivace e a tratti morboso che aveva con Paolina e Carlo, sono portati sullo schermo con dovizia di particolari.
Emerge finalmente un Monaldo severo sì, proibitivo anche, ma che fa trapelare, da pochi e semplici gesti, il grandissimo affetto che lo legava a quel figlio che, a sua volta, provava nei confronti del padre un enorme e tenero sentimento, misto però ad un’incontrollabile voglia di sfuggirgli di mano.
Monaldo che a tavola lo aiuta a tagliare la carne con il coltello (perché Giacomo, come ben sottolinea Martone e come descrivono i grandi biografi leopardiani Chiarini e Damiani, non usava mai il coltello per spezzare il cibo), Monaldo che lo accarezza durante le ore di studio, Monaldo che lo controlla con sguardo attento, autorevole ma benevolo, ed infine Monaldo che loda i progressi poetici di un figlio che Adelaide non vede neanche, se non per via delle malattie che lo affliggono.
Con poche pennellate, attraverso un ritratto scarno ma pungente, Martone delinea una Adelaide Antici Leopardi che si mostra per quel che veramente è stata: una donna anaffettiva, autoritaria, ottusamente e profondamente cristiana, per la quale la morte – anche dei propri figli, come racconta Citati nella sua biografia di Leopardi – è motivo di rallegramento, perché Dio “ha deciso di richiamare a sé le proprie creature” – come disse rivolta al padre della fantomatica Silvia, stesa sul letto di morte.
Non a caso, sarà proprio Adelaide che donerà alla rappresentazione della Natura, al contempo matrigna e madre benigna per gli uomini, i tratti fisici essenziali.
Ma Giacomo sa che la vita non è a Recanati, quel paesino intriso di finto perbenismo, quel paesino che odiava profondamente, come disse in una lettera a Pietro Giordani, il caro Giordani, tanto amato e tanto osannato.
Con l’ausilio di scene che sembrano quadri e delle musiche di Sasha Ring (alias Apparat) accostate ai brani di Rossini, Martone ricostruisce la corrispondenza tra Leopardi e Giordani sfilacciando sullo schermo la quotidianità dolorosa di un giovane ribelle, che amava tanto l’Italia e che, come disse durante il soggiorno a Firenze proprio rivolgendosi a Pietro, “io non ho bisogno di stima, di gloria o di altre cose simili. Io ho bisogno di amore, di entusiasmo, di vita”.
Bella e luminosa la figura di Antonio Ranieri, amico e compagno dell’ultima parte di vita del recanatese.
I due condividono il soggiorno fiorentino, durante il quale Giacomo, un Elio Germano già ampiamente sofferente e con una gobba fin troppo ingombrante, si invaghisce di Fanny (Fanny Targioni Tozzetti, interpretata dall’affascinante Anna Mouglalis) e condividono il breve soggiorno romano che poi li farà proseguire fino a Napoli, tappa ultima per Leopardi, in cui troviamo anche una Paolina Ranieri che, premurosamente, aiuterà Giacomo a scrivere di notte, ormai impossibilitato da una vista sempre più debole.
Con un finale adornato di qualche effetto speciale, con il Vesuvio in piena eruzione, la lava incandescente che sembra correre proprio accanto al corpo del poeta, con un cielo stellato che fiammeggia alla luce riverberante della forza della Natura, Martone ci regala un Giacomo ormai allo stadio finale, e pur tuttavia sempre dallo sguardo lampeggiante e irrequieto.
I versi de “La Ginestra” accompagnano un Leopardi trentanovenne nel discioglimento della sua poetica esistenza.
Pochi personaggi, ben delineati. Fotografia impeccabile, colonna sonora da brividi, attori eccellenti.
Un racconto pulito ed asciutto, che scorre veloce come un liquido caldo, lo stesso liquido caldo che si incarna nella poesia di Leopardi, recitata da un Giacomo vero e appassionato, nonostante i numerosi slanci di malinconia, di Noia esistenziale e di somma infelicità che lo spingeranno a dire:
“Perché in confidenza, mio caro amico, io credo felice voi e tutti gli altri, ma in quanto a me, con licenza vostra e del secolo, io sono infelicissimo e tale mi credo. E tutti i giornali dei due mondi non mi persuaderanno mai del contrario”.
Il Leopardi di Martone è un ribelle, un giovane che racchiude nel suo essere favoloso tutte le sofferenze di un corpo martoriato, afflitto da innumerevoli malattie, un giovane che mai ha abbandonato il volto dell’infanzia.
Martone ha voluto far germogliare un Giacomo inedito, in lotta con il suo tempo, con un secolo che sarà il Padre del Risorgimento ma che, attraverso i suoi più illustri rappresentanti, ha tentato di domare il poeta scomodo, l’amico di quel Giordani che troppe idee balorde gli aveva messo in testa.
Di grande impatto emotivo, il film narra gli avvenimenti reali della vita di Giacomo Leopardi, ma Mario Martone opera una scelta felicissima: si sofferma su particolari che normalmente nelle scuole non vengono neppure nominati.
Questo discorso – e lo sa bene chi Giacomo Leopardi l’ha studiato in maniera più approfondita – vale sia per quanto riguarda il rapporto che il poeta aveva con Monaldo, sia per quanto riguarda il ruolo di Adelaide all’interno dell’ambiente familiare.
Il Conte Monaldo si dimostra – e testimonianza ne sono, ad esempio, le biografie particolareggiate di Chiarini e Damiani – come un padre severo e autoritario, ma certamente amorevole nei limiti del possibile.
L’Adelaide di Martone, colei che da sempre incarna una figura quasi evanescente nell’immaginario collettivo, qui assume invece il ruolo che realmente le spetta: una donna cruda, algida, profondamente ottusa e priva di sentimenti, che ha un posto fondamentale nella gestione economica della famiglia. Una madre assente, ma ferocemente presente in veste di contabile e amministratrice.
L’attenzione del regista nel delineare un Giacomo socialmente attivo, dalle idee rivoluzionarie e dall’indole focosa, l’ha certamente aiutato a dare un grande tocco di originalità all’andamento del film: perché Leopardi non è solo “A Silvia”, “Il passero solitario” o “L’infinito”, ma è molto altro.
Leopardi è “All’Italia”, è il corrispondente delle lettere scambiate col Giordani, col padre Monaldo, con la sorella Paolina, ed è anche il Leopardi degli studi filologici, quelli che restano sempre un po’ nell’ombra e che invece il regista ha ben evidenziato fin dalle prime battute.
Nel complesso un’opera fresca, moderna e che tuttavia odora di eterno, perché Giacomo Leopardi è eterno, immutabile e sempre, amaramente, dolcemente attuale.
L’ha ribloggato su Scritti di un semplice cittadinoe ha commentato:
E’ la prima volta che ribloggo un articolo di letteratura ma questo merita davvero.
Grande articolo di Giulia sul film “Il Giovane favoloso” che, come dice l’autrice, resta “un’opera fresca, moderna e che odora di eterno come Giacomo Leopardi”
Uno di questi giorni andrò a vederlo, mi dicevo fino a poco fa. Dopo aver letto questa ottima recensione, se potessi esprimere un desiderio, vorrei essere ADESSO al cinema, in attesa della proiezione “Il giovane favoloso”. L’idea della modernità di un personaggio che tutti crediamo di conoscere per come ci è stato raccontato, unita alla descrizione di personaggi ed episodi trascurati nella trattazione scolastica, mi stuzzica assai.
Complimenti a Giulia, perché la sua recensione ci trasmette, oltre alle belle sensazioni che ha ricevuto dalla visione del film, tutto l’amore che nutre verso questa figura importantissima della nostra letteratura.