Il testimone eccellente
La Corte di Palermo in trasferta al Quirinale per la testimonianza di Giorgio Napolitano: il Presidente della Repubblica ha detto tutto ciò che sa sulla Trattativa Stato-mafia?
di Guglielmo Sano
Il procedimento sulla Trattativa Stato-mafia per un giorno si è spostato a Roma: Giorgio Napolitano il 28 Ottobre è stato ascoltato dai giudici di Palermo nella Sala del Bronzino al Quirinale, trasformata in aula di tribunale per l’occasione. Quasi metaforica la scelta della “sala oscura”, così detta già nel ‘700, in quanto non vi sono finestre verso l’esterno ma solo sulla “Loggia d’onore”.
L’udienza è stata infatti blindatissima: ammesse giusto una trentina di persone, nessun supporto digitale permesso. Per i presenti solo carta e penna: le registrazioni sono state effettuate dai tecnici del Colle che poi le hanno messe a disposizione della Corte d’Assise.
Nessuno degli imputati che avevano richiesto di partecipare (Riina, Bagarella, Mancino) è stato invitato perché, come scritto nella sua ordinanza dal Presidente della corte Alfredo Montalto, “l’immunità della sede esclude l’accesso delle forze dell’ordine con la conseguenza che non sarebbe possibile ordinare l’accompagnamento con la scorta degli imputati detenuti”.
Il passaggio più drammatico nel racconto della più alta carica dello Stato è quello di una delle notti più “buie” della Repubblica: il blackout tra il 27 e il 28 Luglio 1993 (contestualmente si verificarono l’attentato di via Palestro a Milano, quello di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma).
Ciampi, ai tempi Presidente del Consiglio, in seguito rivelerà di aver temuto che fosse il preludio a un “colpo di stato”. Però “noi (Napolitano si riferisce a se stesso e al Presidente del Senato Spadolini, ndr) seguivamo, eravamo coinvolti, ma il bersaglio era il governo” aggiunge quello che allora era solo il Presidente della Camera.
Quando il Pm Di Matteo gli chiede se le “bombe sul continente”, ovvero gli attentati di Via dei Georgofili a Firenze, di via Fauro a Roma oltre a quelli già ricordati avvenuti in successione nella capitale e a Milano, furono un ricatto nei confronti delle istituzioni, Napolitano risponde affermativamente e precisa: “ricatto o addirittura pressione a scopo destabilizzante di tutto il sistema”.
Le stragi del ’93 vennero percepite dalle istituzioni come rispondenti a “una logica unica e incalzante per mettere i pubblici poteri di fronte a degli aut aut, perché potessero avere per sbocco una richiesta di alleggerimento delle misure di custodia in carcere dei mafiosi”.
Ma le decisioni restavano comunque nelle mani dell’esecutivo “non a caso i presunti eversori, il blackout, l’avevano fatto a Palazzo Chigi non a Montecitorio”. Troppo distante dalla “stanza dei bottoni” all’epoca, Napolitano, per essere a conoscenza degli “indicibili accordi” di cui farà menzione, in una lettera inviatagli il 18 Giugno 2012, il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio.
“Prima di inviarle quella lettera, il Consigliere D’Ambrosio gliela aveva preannunciata? E comunque le aveva esternato la sua volontà di dimettersi dall’incarico? – a un certo punto ha chiesto a Napolitano il pm Vittorio Teresi – “mi aveva solo trasmesso un senso di grande ansietà e anche un po’ di insofferenza per quello che era accaduto con la pubblicazione delle intercettazioni di telefonate tra lui stesso e il Senatore Mancino” ha risposto il Capo dello Stato.
Un “fulmine a ciel sereno” quella lettera – nella missiva D’Ambrosio palesava il dubbio di essere stato “utile scriba” di una “trattativa” (parola tra l’altro mai pronunciata durante la deposizione) tra pezzi dello Stato e pezzi di Cosa Nostra – così insolita che i due non ne parlarono più: “non ha mai con me aggiunto parola dopo”.
D’altronde se un magistrato come D’Ambrosio avesse avuto qualche “sostegno oggettivo” per la sua ipotesi, per l’appunto essere stato un “utile scriba”, “avrebbe fatto il suo dovere” nel senso che si sarebbe rivolto all’autorità giudiziaria.
“Sono su una linea sottile” da una parte ”quello che non devo dire non perché abbia qualcosa da nascondere ma perché la Costituzione prevede che non lo dica” e dall’altra “quello che intendo dire per facilitare il processo di chiarificazione” anche questo si legge nelle 86 pagine che riassumono le quasi tre ore di deposizione del primo Presidente della Repubblica ascoltato come testimone in un processo.
Anche se nel comunicato del Colle si legge che “il capo dello Stato ha risposto alle domande senza opporre limiti di riservatezza connessi alle sue prerogative costituzionali né obiezioni riguardo alla stretta pertinenza ai capitoli di prova ammessi dalla Corte stessa”, tuttavia, più volte Napolitano si è appellato sentenza della Corte Costituzionale che nel dicembre del 2012 stabiliva le prerogative di segretezza del capo dello Stato, ordinando la distruzione delle intercettazioni tra lo stesso Napolitano e l’ex Presidente del Senato Nicola Mancino.
Dopo l’attesa deposizione: tutti contenti e nulla di fatto. Il Presidente della Repubblica ha fornito un quadro giudicato ampio e dettagliato dai giudici, ha negato di essere a conoscenza di qualsiasi tipo di accordo, trattativa, contatto con Cosa Nostra sia prima sia dopo la stagione delle stragi. Nello stesso tempo ha confermato però l’attentato al corpo politico dello Stato che poi è il centro dell’accusa che ha dato il via al processo.
Ma ha detto proprio tutto quello che sa Napolitano? Se un ricatto c’è stato, è possibile che le istituzioni di cui Napolitano era uno dei vertici (membro della, lui stesso l’ha definita così, “triade” comprendente il Presidente della Repubblica, quello del Senato e quello della Camera) non abbiano reagito?
In qualche modo a questa domanda, Napolitano, ha risposto: chiedete a “coloro che avevano la responsabilità in tutti gli aspetti della impostazione, della guida e della gestione della politica anti mafia e della lotta contro la criminalità organizzata, erano naturalmente il Ministro della Giustizia, il Ministro dell’Interno, la Commissione Antimafia, tutti incarichi che io certamente non ho ricoperto tra l’89 e il 93”. Non ha mentito Napolitano, fino a prova contraria, ma qualche dubbio sulla sua reticenza resta.