Interstellar e la spettacolarizzazione della vacuità
Il 6 Novembre è finalmente uscito in contemporanea mondiale il nuovo, attesissimo lungometraggio di Christopher Nolan con Matthew McConaughey, Jessica Chastain e Anne Hathaway
Da sempre diviso tra due tendenze cinematografiche, il blockbuster e il thriller psicologico, Christopher Nolan già dal precendente Inception ha cercato di combinare insieme i due generi, unendo alla spettacolarizzazione scenografica e alla fantascienza una dimensione umana e introspettiva. Anche la passata filmografia evidenzia lo squilibrio tra fantastico, la saga di Batman, The Prestige, e l’indagine sulla mente, Insomnia, Memento.
Con Interstellar giunge dichiaratamente alla commistione, ricercata, delle due direzioni diverse, arrivando nello spazio più profondo, già luogo metaforico dello spettro primordiale e universale delle emozioni terrestri, allacciandolo con un rapporto padre-figlia che regge sostanzialmente da solo tutto l’impianto drammaturgico del film.
Collocato in un futuro imprecisato, e forse neanche troppo improbabile, il viaggio interstellare è reso necessario dalla fine imminente della vita sulla Terra, ormai completamente impoverita e tormentata dalle tempeste di sabbia, e la cui sopravvivenza si basa esclusivamente sulla coltivazione del grano. Cooper (McConuaghey), agricoltore ma ex pilota aeronautico, vive in un ambiente quasi desertico, insieme ai due figli e il padre della moglie defunta. La casa che abitano ,“ispirata ai dipinti di Andrew Wyeth”, è il teatro iniziale dell’abbandono patriarcale e di strane presenze invisibili che ossessionano la piccola Murph. Dall’addio dei due, inizia così l’ ”odissea” di Cooper, un viaggio epico attraverso un wormhole per un’altra galassia, alla ricerca di un pianeta ospitale per accogliere la popolazione terrestre.
Accantonando la trama, che nel corso delle tre ore di pellicole si sviluppa senza troppe sorprese e lo spettatore che ha confidenza con la fantascienza non tentennerà nello svelare presto il colpo di scena finale, Nolan, forte di un nome entrato nella rosa dei registi più importanti di Hollywood, tenta di spingersi in alto, là dove sono stati i grandi. Ma no, Interstellar non è il nuovo 2001: Odissea nello spazio, né il nuovo Solaris, non fidatevi dei deliri di Tarantino. Le tracce imitative sono disseminate dappertutto, è vero: citazioni dirette, i robot dall’anima antropomorfa, la colonna sonora maestosa, qua a tratti ridondante quella di Hans Zimmer, lo sguardo sulla solitudine dell’uomo nello spazio. Ma Interstellar non raggiunge mai la stessa profondità poetica e filosofica dei suoi illustri precedessori, pur pretendendola. Finisce più per assomigliare ad Armageddon.
Il regista propone allo spettatore l’esplorazione dello spazio e l’attraversamento del buco nero, il “cuore di tenebra” delle galassie, come uniche possibilità di salvare la razza umana tramite un rigoroso discorso scientifico, grazie alla consulenza del fisico Kip Thorne che ha seguito tutte le fasi produttive del film, che viene però appiccicato con freddezza alle bocche degli attori, con il solo risultato di convincere lo spettatore della validità delle teorie, inizialmente confondendolo e infine spiegandogli tutto, come a un alunno disattento. Non solo: all’esperienza nello spazio si vorrebbe aggiungere una valenza emotiva come sincero motore dei movimenti dei personaggi o, apparentemente, solo di alcuni – il pressapochismo con cui si affrontano per esempio il figlio maggiore o i due colleghi austronauti, è spiazzante – una valenza che sfuma però nel sentimentalismo più calcolato e superificiale (“L’amore come forza che trascende il tempo e lo spazio”).
Scenograficamente impeccabile, affidandosi il meno possibile al CGI e costruendo dal vero le astronavi utilizzate, non si può negare a Nolan la capacità demiurgica di suggerire delle atmosfere emotive attraverso i suoi mondi: mentre sulla Terra, il futuro sembra appartenere al passato, ispirato alla Grande Depressione americana e il tragico Dust Bowl, nello spazio non c’è posto per i design futuristici e ultra-tecnologici; le tute, simili a quelle reali, sonostate invecchiate, risultando quasi vintage. E inoltre, gli spettacolari panorami dei pianeti desolati candidati all’ospitalità umana, colpiscono sicuramente l’occhio nolaniano abituato a intricate architetture (che comunque non rimarrà insoddifatto). L’occhio sì, ma non il cuore.
Nonostante le evidenti intenzioni, Nolan fallisce nel “provare a vedere cosa c’è oltre” quella realtà pentadimensionale che mostra e descrive, senza lasciare nulla di sospeso nella mente dello spettatore. Con Interstellar, il cinema di Nolan conferma definitivamente la sua prossimità con il mondo dei videogame: un mistero da risolvere, un’impresa da concludere, pericoli da cui sfuggire e personaggi-pedine dell’azione con solo una vaga umanità e personalità. La spettacolarizzazione della vacuità.
Innanzitutto complimenti per il blog e per la recensione :-).
Effettivamente ci sono degli aspetti del film che lasciano perplessi, tuttavia la potenza evocativa dal film è tale da sopperire, almeno per me, a questi difetti.
Ne ho discusso sul mio blog, magari ti interesserà leggere la mia recensione:
http://lapinsu.wordpress.com/2014/11/25/interstellar/