Il Mali, la guerra, l’Ebola: l’esperienza di Andrea De Georgio
Il giornalista freelance italiano, da anni in Africa Occidentale, ci racconta in una lunga intervista la situazione del Mali, di uno dei conflitti maggiormente dimenticati al mondo e di come le popolazioni vivono l’epidemia di Ebola
Andrea, da dove e quando nasce il tuo rapporto con il Mali e l’Africa?
Io sono in Mali perché mio fratello vive lì, si è trasferito in Africa Occidentale 15 anni fa (tra Mali e Burkina Faso), è sposato con una donna maliana e hanno tre figli bellissimi. Questo è il motivo per cui ho cominciato a viaggiare in quella zona: per andare a trovare lui e la sua famiglia nel 2005. Ho cominciato a lavorare in Mali qualche mese prima del colpo di Stato (marzo 2012), perché alcuni discorsi politici legati soprattutto al nord del Paese (i tuareg e la loro ribellione, il narcotraffico, il rapimento di occidentali) erano tutti elementi che mi sembrava portassero alla guerra o a qualcosa del genere. In Mali tutti dicevano che qualcosa di grave sarebbe successo. Quando sono andato c’erano già jihadisti, gruppi legati ad Al Qaeda che avevano occupato Timbuctù, Gao e Kidal, quindi in realtà era già tutto sul piatto. Lavorarci da giornalista non era per niente facile all’inizio perché in Italia non c’è l’idea di “prevedere un conflitto”, non esiste proprio la forma mentis. Nessuno sapeva che oltre alla Francia sarebbe intervenuta tutta la comunità internazionale, ONU, UE come attore principale e di conseguenza anche l’Italia. Ecco, questo è il discorso: quella del Mali è una delle guerre più dimenticate degli ultimi anni, perché sta andando avanti e non è finita come ci hanno voluto raccontare i francesi e i loro media, da cui noi molto spesso prendiamo informazioni. È una situazione che ci riguarda da molto vicino. Quando mi capita di raccontare la situazione del Mali prendo sempre ad esempio Timbuctù: tutti noi abbiamo sentito, letto in qualche libro o visto in qualche film questo nome almeno una volta nella vita. Pochi sanno dove si trovi e l’idea è sempre quella che sia un posto lontano. In realtà Timbuctù è dove c’è stata per 9 mesi l’occupazione di gruppi vicini ad Al Qaeda ed è stato il territorio più grande mai controllato dall’organizzazione. Se pensiamo che si trova a 4-5 ore di aereo dall’Italia, vuol dire che esiste una minaccia di terrorismo jihadista in Mali, e come succede con l’Iraq o la Siria, attraverso l’emigrazione o gli scambi commerciali, non occuparsi di questo Paese africano vuol dire non occuparci di noi stessi. Così come la questione dei manoscritti: non si tratta del solito stereotipo delle tribù africane che si fanno la guerra tra di loro ma si tratta di civiltà millenarie che hanno tradotto i greci, che sono completamente collegate con il Mar Mediterraneo.
Com’è vivere una situazione come quella del Mali, sia da giornalista che nella vita privata?
Se parli della guerra, per me è stata la prima che ho seguito sul campo dall’inizio, anzi, da prima che iniziasse. Ero già stato in Libia e in Egitto durante la Primavere Arabe però non ero mai stato così tanto vicino alla linea del fronte e a bombardamenti. È stato particolare perché sono presenti due elementi personali paralleli e importanti: quello del cronista, perché faccio questo lavoro da pochi anni e ovviamente nel momento in cui il Mali è entrato nel “cono di luce” delle notizie non avevo pensato che avrei lavorato utilizzando la lingua bambara, imparata un po’ grazie a mio fratello e ai suoi figli, e quindi ecco anche il discorso familiare. Loro vivono nella capitale Bamako, dove per fortuna la guerra non è arrivata, ma nonostante questo più volte si sono ritrovati pronti a lasciare il Paese perché tutte le volte che i jihadisti si sono avvicinati (fino a soli 300 km) a Bamako. Avevo dunque l’apprensione personale legata al fatto che volevo raccontare un Paese che amo tantissimo, e che non è mai stato raccontato in Italia. Ho sentito anche un senso di responsabilità grande. So benissimo che non ho le capacità e l’esperienza per poter fare chissà quale racconto. Per me a livello giornalistico è stata una grande scuola, perché le prime 2-3 settimane del conflitto ho vissuto un cambiamento enorme: dai pochi amici freelance presenti in Mali per passione e anche per motivi personali come me si è passati a vedere i grandi inviati di guerra di tv e giornali di tutto il mondo. Ho lavorato anche come fixer, accompagnando diversi inviati italiani e stranieri in giro per il Paese. In Mali ho la grande fortuna di avere i contatti familiari e lì c’è il concetto molto bello di famiglia allargata. Grazie a questo, anche nel posto più sperduto sapevo a chi chiedere supporto, compreso il nord del Paese. Si tratta di persone che ti consegnano le chiavi della loro realtà grazie a un rapporto di fiducia. Durante un conflitto è un valore aggiunto importante, che mi ha anche permesso di lavorare in Mali come guida, tra l’altro usando la loro lingua e non il francese, che sì, viene parlato, ma è comunque la lingua coloniale. La mia frustrazione più grande è che si è parlato di quel Paese durante la guerra come si fa spesso, cioè durante le emergenze come l’Ebola. Si sente parlare di queste zone per alcune settimane e poi ritorna nel dimenticatoio quando invece una volta che le persone hanno avuto modo di conoscere di più il Mali sono riuscito a fare qualche lavoro anche con Rainews24: approfondimenti visivi per far capire bene quello che succede. È difficile raccontare l’Africa in generale al di fuori degli stereotipi.
In Africa occidentale sei stato solo in Mali?
No, ho girato un po’ in tutta quella parte di Africa. La prima volta che sono stato in queste zone (2005) ho preso una jeep a Milano con 4 amici e abbiamo guidato fino in Burkina Faso passando per il Marocco, anche per vedere come cambia il continente. Ciò che mi ha fatto decidere di raccontare l’Africa, anche l’Africa Nera, è che l’Italia ha questa enorme fortuna di essere un corridoio in mezzo al Mediterraneo, piccolo mare (rispetto ad altri, sia chiaro) che da sempre ha rappresentato un bacino culturale di scambi incredibile: in questo mare si affacciano culture molto diverse e noi da sempre (a parte gli ultimi 100 anni) abbiamo sempre avuto rapporti con decine di popoli. Andando in Sud Italia pensiamo a Lampedusa, che è più vicina alle coste africane piuttosto che a quelle italiane: noi la consideriamo la porta d’Europa dal punto di vista dei migranti che approdano lì, ma in realtà se la vediamo dal punto di vista italiano, Lampedusa è la porta verso il Nord Africa. In Libia fino a prima degli ultimi tumulti prendevano il 25% della nostra energia, è un ex colonia e non possiamo prescindere da quello che succede lì, non solo dal punto di vista delle notizie flash che arrivano, ma anche dal punto di vista degli approfondimenti.
Io penso sia importante parlare di Africa, perché siamo molto più simili di quanto non si pensi. Anzi, abbiamo molto da imparare da questi popoli. E se è vero che stiamo vivendo una crisi economica e sociale enorme, perché allora non prendiamo esempio da loro? Come riescono a reagire a guerre, malattie, etc. Hanno una forza, uno spirito incredibile.
Questione Ebola: come e quanto ha a che fare con il Mali?
Come per altre situazioni nelle quali noi scopriamo questi Paesi lontani, c’è uno scollamento tra il nostro modo di vivere questi accadimenti (allarmismo piuttosto che il bisogno di solidarietà) e come la vivono le popolazioni direttamente interessate. Quello che non mi è mai andato giù di come viene trattata la questione Ebola in Italia è che si parla sempre e solo di numeri e non di persone. Non ci sono mai storie di persone, li vediamo come vittime che subiscono tutto e che hanno bisogno di aiuto, in attesa di assistenzialismo, quando invece non è così. È difficile spiegare queste differenze, perché non abbiamo gli elementi per leggere dei contenuti diversi su questo. Ma come giornalisti, come produttori di informazioni siamo tenuti a farlo. Nello specifico dell’Ebola il rapporto delle persone dell’Africa Occidentale con le malattie è molto particolare, perché loro vivono, anche attraverso la religione, di un fatalismo e in un modo tale per cui le medicine, gli ospedali, la sanità, sono viste come un qualcosa di esogeno, che arriva dall’uomo bianco. Ovviamente non è rigettato: chi vive nelle zone rurali, dove non c’è questo tipo di assistenza (a parte qualche piccolo dispensario delle ONG), a volte nemmeno sa che tipo di malattia ha, non può fare i test, subendone poi le conseguenze. Ma anche chi si può permettere assistenza e cure (come chi vive nelle città e ha disponibilità economica) ha un approccio comunque diverso rispetto al nostro. Se avessimo delle storie dal campo ce ne renderemmo conto. Il Mali finora è stato toccato dall’epidemia di Ebola solo per un caso, ma è circondato da Paesi in cui invece la malattia sta esplodendo, come Senegal, Guinea, da cui è nato, Costa d’Avorio, Liberia, Sierra Leone. Se capissimo meglio la loro realtà capiremmo anche come affrontare quest’emergenza.
Mi spiego meglio: lì il contagio è portato dagli animali, soprattutto dai pipistrelli. Da loro esiste il concetto di “viande de brousse”, cioè la carne della foresta (come per noi quella di cacciagione), nome generico sotto cui rientrano tanti animali, che vengono appunto cacciati e mangiati. Non solo pipistrelli ma anche scimpanzé, istrici e tutti quegli animali che possono portare al contagio. Una volta che si passa dalla catena animale a quella umana le conseguenze sono enormi. Ci sono Paesi in cui ci si sposta tantissimo, per esempio durante le feste o durante il periodo di Ramadan: come dicevamo prima, le famiglie sono allargate, si vive in Stati diversi e si capisce che in Africa Occidentale non si possono chiudere le frontiere. C’è un giro di merci e di persone che non sarebbe possibile altrimenti. Si parla di Paesi che sono tra i più poveri del mondo, è difficile da affrontare come problema e non credo che ad esempio si possa risolvere la situazione attraverso azioni militari (per esempio i soldati inviati da Obama). E la stessa cosa vale per il terrorismo, per la propagazione del jihadismo: come diceva Tiziano Terzani, “non è mai esistita una guerra che abbia messo fine alla guerra”.
Cosa ne pensi dei rapimenti di giornalisti (o di cooperatori internazionali) in zone calde del mondo?
Questo è un tema molto delicato, che mi tocca anche personalmente. Volendo fare questo tipo di mestiere, soprattutto da freelance (quindi senza essere pagati), non ci sono ad esempio assicurazioni di viaggio perché costano tantissimo e non ci staremmo con le spese. Se vuoi andare alla fonte diretta e vedere con i tuoi occhi quello che succede ti devi esporre a certi rischi e quando ci sono rapimenti o altri eventi di questo genere, ci si presta spesso al fianco a polemiche, sia di parenti o persone vicine, sia in generale a livello pubblico. Io penso che ognuno di questi avvenimenti non andrebbe giudicato, e qualora venisse giudicato, bisognerebbe cercare di capire bene i dettagli e non lasciarsi andare a facili risposte o polemiche come “se la sono andata a cercare”. Questa è una posizione che io rigetto in generale sempre quando la sento. Lo h anno detto anche a me per alcune cose che mi sono successe in passato, e anche dei colleghi che sanno bene com’è stare sul campo. È troppo facile dire queste cose stando seduti nel proprio salotto o davanti a un computer, soprattutto quando le cose non ci toccano in prima persona. Un altro esempio degli ultimi tempi è stato il rapimento di Domenico Quirico in Siria: c’è da dire che non ci si può improvvisare né cronisti di guerra né reporter, ma in generale non si può andare in certi Paesi senza prendere le dovute precauzioni o i contatti giusti, specie in situazioni di conflitto. A prescindere da quello che si va a fare. Io stigmatizzo il turismo di guerra: ci sono certi giornalisti che sul campo vengono chiamati “eccitati di guerra”, che vivono costantemente sotto le bombe e sentono spari tutti i giorni, oppure non riescono ad avere la loro dose giornaliera di adrenalina. Bisogna stare molto attenti ad andare a lavorare o a portare aiuti in quelle zone, ma anche ad emettere giudizi “da qui”.