Occupy Central: l’instancabile Hong Kong
Sono trascorsi più di 50 giorni dall’inizio delle proteste. L’obiettivo non è cambiato ed anche negli ultimi giorni ad Hong Kong si è assistito all’attivismo puro dei giovani con l’ombrello
di Martina Martelloni
Solo dieci giorni fa il South China Morning Post placò gli animi di chi non crede più o non ha mai creduto – per interessi economici o amor proprio – alle manifestazioni largamente partecipate finalizzate a ripulire Hong Kong e le relative sedi del potere decisionale dalla influenza mai cessata della potente Pechino.
Secondo il quotidiano, alcuni leader del movimento Occupy Central avrebbero abbandonato il campo di battaglia in vista di un intervento della polizia per sgomberare le zone ancora occupate di Mong Kok e Admiralty. Quello che invece è accaduto per le strade dell’ex terra di colonia britannica, negli ultimi giorni, ha nuovamente riacceso una fiamma di proteste mai del tutto esaurita.
Due fatti in particolar modo riportano il “caso Hong Kong” nell’analisi geopolitica attuale. Un primo episodio ha visto alcuni dimostranti protagonisti artefici di un attacco contro l’edificio del parlamento (Legco). Il tentato assalto violento ha coinvolto anche alcuni parlamentari rimasti feriti e un gruppo di poliziotti che per qualche ora si è imbattuto in uno scontro con i giovani a viso coperto. Quattro di loro sono stati arrestati.
Colpire il Parlamento in una notte per richiamare con maggior forza e vigore i rappresentanti politici alle richieste, divenute ora esigenze dei cittadini di Hong Kong. La frustrazione e l’assenza di risposte concrete ha acceso la miccia della rabbia dopo quasi 50 giorni di protesta pacifica rispettosa, con quel tocco creativo e pungente da creare ammirazione nell’intero pianeta.
I membri di Occupy Central hanno preso le distanze dal gesto inaspettato del gruppo di giovani, considerati dall’organizzazione “incoerenti con i principi di pace e non violenza sostenuti dal movimento” – come il leader democratico Alan Leong li ha definiti.
I sostenitori del movimento degli ombrelli devono insistere su azioni non invasive così da non creare alibi d’attacco d’accusa da parte del governo che, con ampio margine di differenza da loro, intende smantellare il luogo dell’occupazione con la forza.
Un secondo episodio è stato ideato e realizzato da chi ritiene l’ex potenza coloniale inglese artefice passiva dell’ingerenza Cinese. Un piccolo gruppo di manifestanti si è infatti radunato nei giorni scorsi, all’esterno de consolato britannico. Armati dei loro fedeli ed inseparabili ombrelli gialli, gli attivisti hanno alzato la voce contro la Gran Bretagna.
“La Gran Bretagna è obbligata a risolvere il problema. Metà della responsabilità ricade sugli inglesi, hanno firmato loro la dichiarazione congiunta” – forti le parole di uno dei leader delle proteste studentesche.
Ma cos’è la Dichiarazione Congiunta sino-britannica? Sostanzialmente un puro e semplice accordo dal contenuto articolato, col quale Londra e Pechino nel 1984 hanno sottoscritto libertà e diritti affermando che gli attuali sistemi sociali ed economici ad Hong Kong resteranno immutati per i successivi cinquant’anni dal passaggio delle consegne del 1997. Dunque, non letteralmente pochi sono gli anni mancati al raggiungimento del cinquantennio, quando Hong Kong, forse, potrà dichiararsi totalmente libera.
Ad oggi la Cina persevera con la sua ombra nel ricoprire ed intervenire su questioni interne all’isola – soprattutto di tipo democratico. Ad agosto, infatti, Pechino ha dichiarato che i candidati per le principali cariche politiche del territorio semi-autonomo devono essere persone “patriote”, devote e devono aver necessariamente passato il vaglio di una commissione vicina al governo cinese.
La ruota delle intese e delle contese non smette mai di girare. Di questo Xi Jinping, presidente cinese, ne è convinto sostenitore. Una sorta di sognatore instancabile, un eterno inseguitore del “sogno cinese”, Xi Jinping sembra non curarsi molto dei tanti focolai che attornano il suo vasto territorio. Da Hong Kong alla tormentata area tibetana, per non parlare dello storico problema dello Xiniang.
Fare affari e fare politica con voci di alto grado è molto più comodo e meno noioso del voler risolvere le crisi sociali in terre ostili all’invadenza di Pechino. Ad esempio, sembra più semplice confrontarsi con il primo ministro giapponese Shinzo Abe. Due posizioni diverse, due culture diverse, due obiettivi futuri, per i rispettivi Paesi, completamente all’opposizione, eppure qualcosa si è mosso anche se con atteggiamento prevenuto da parte di entrambi.
L’incontro tra i due leader orientali è avvenuto al termine del vertice Apec per motivi principalmente legati ad una storica e mai conclusa disputa marittima–territoriale. Le isole Senkaku o Diaoyu, nel Mar Cinese Orientale, e le posizioni revisioniste del governo di Tokyo sulla Seconda Guerra Mondiale.
Nonostante il clima di apparente congelamento della situazione – che fa ben sperare in una prossima tentata risoluzione diplomatica – a rendere il tutto particolarmente spigoloso, ci si è messa l’instabilità economica e politica interna al Sol Levante. Il premier Shinzo Abe, proprio nella giornata di venerdì 21 novembre ha deciso: la Camera dei Consiglieri e la Camera dei Rappresentanti sono sciolte. Sorprende a dismisura una tale presa di posizione del primo ministro Shinzo Abe, soprattutto perché conseguentemente a tale svolta, le elezioni verranno anticipate di due anni prima della scadenza naturale del mandato.
Scelte che riguardano il futuro avvenire, mentre nel presente attuale, in Giappone si respira aria di recessione tecnica, un soffocamento per la ripresa economica del Paese che avrebbe costretto il governo a cambiare piano di azione, chiedendo così elezioni anticipate a metà dicembre.
Shinzo Abe ha definito le elezioni una sorta di referendum sul rinvio dell’aumento dell’iva, misura questa molto impopolare, e che ha costituito ago della bilancia nelle ultime misure economiche adottate dalla sua maggioranza.
Una risposta
[…] La rivolta degli ombrelli alla quale si fa riferimento è la manifestazione del settembre del 2014 che, capeggiata da Law e da altri giovanissimi come Joshua Wong, Agnes Chow and Oscar Lai, portò nelle strade della metropoli decina di migliaia di persone che, in nome di un regime democratico e del suffragio universale, rimasero all’aperto per 79 giorni. È ricordata come “degli ombrelli” proprio perché gli ombrelli hanno permesso ai manifestanti di difendersi sia dal sole cocente che dai lacrimogeni e dagli spray urticanti della polizia per così tanto tempo. […]