Faber in Sardegna: l’anima salva di De Andrè all’Agnata
Abbiamo visto in anteprima il documentario di Gianfranco Cabiddu sul rapporto del cantautore genovese con l’isola, in uscita nelle sale italiane il prossimo 12 Gennaio
Di Fabrizio De Andrè si è raccontato tanto, si è scritto, si è cantato, eppure si sente ancora il bisogno di seguirne le tracce, di scovarne i segreti, di ascoltare ancora una volta la voce.
Proiettato in anteprima il 23 Novembre all’Auditorium – Parco della Musica di Roma, il documentario di Gianfranco Cabiddu, uno dei più importanti registi del cinema sardo contemporaneo, tenta appunto un approccio di riavvicinamento, cauto e non invasivo, ai passi del cantautore genovese nell’amata terra sarda.
Una terra che ha cambiato innanzitutto la sua vita e la sua produzione artistica, e un passaggio, quello di Fabrizio, che ha trasformato per sempre una località poco conosciuta e i suoi abitanti, creando un luogo, quasi sacro, auratico ormai, che continua tuttora a catalizzare visitatori (oggi è anche un B&B e agriturismo).
Il documentario ripercorre così la storia dell’Agnata, acquistata da De Andrè nel 1975, tra esibizioni musicali, registrate durante il Festival Time in Jazz, dei brani di Faber eseguiti da diversi artisti (tra il figlio Cristiano, Teresa De Sio, Paolo Fresu, Gianmaria Testa, Morgan) e interviste a chi l’acquisto, la ricostruzione e l’abitare l’avevano vissute con lui. Dori Ghezzi in primis, compagna di una vita, che racconta le sensazioni dei momenti risalenti all’epoca della restaurazione del casale e della preparazione del terreno circostante per la coltivazione e l’allevamento: «la sua intenzione era smettere di fare il cantuatore e cominciare a fare l’allevatore; invece era la giusta alternativa perché potesse continuare a scrivere e suonare».
Proprio qui nacquero infatti dischi come L’Indiano, Le Nuvole, Rimini e Anime Salve. Il fattore affezionato Filippo Mariotti, eterna spalla destra nel lavoro all’Agnata, racconta di quando registrarono i suoni di una vera battuta di caccia, con le urla e le fucilate prensenti in Fiume Sand Creek. Per Renzo Piano l’impegno che Faber investì nell’Agnata fu un “lavoro da Fitzcarraldo” (riferendosi alla produzione e al film di Werner Herzog).
In quel periodo era diventato quasi necessario cambiare vita, allontanarsi dal turbine del suo successo, e la Sardegna rappresentava il rifugio ideale: “La vita in Sardegna è forse la migliore che un uomo possa augurarsi: ventiquattro mila chilometri di foreste, di campagne, di coste immerse in un mare miracoloso dovrebbero coincidere con quello che io consiglierei al buon Dio di regalarci come Paradiso”. Paradossalmente, ricorda Paolo Casu, storico amico di famiglia, «gli ricordava i luoghi della sua infanzia» nelle tenute tra Savona e Cuneo. Si dedicò totalmente e in prima persona al disegno del terreno, alle piantagioni, ai pascoli: importò anche una razza bovina francese che non esisteva prima in Sardegna.
I soldi che guadagnava dalla musica li reinvestiva nell’azienda, e c’è chi sospetta che tenesse concerti unicamente per racimolare qualcosa, data la sua estrema riservatezza, anche artistica. Imparò il gallurese, e lo parlava meglio dei galluresi stessi, ormai imbastarditi dall’italiano. E poi il sequestro, con i lunghi quattro mesi di trattative, il quale non cambiò, anzi rafforzò il rapporto con questa terra aspra e meravigliosa.
Il lavoro di Cabiddu certo non rivela nulla di nuovo su Fabrizio, ma è uno splendido modo di ricordarlo ancora, un inseguimento dell’ombra che ancora abita quella collina della Gallura.
“Io e lui ci incontriamo ancora“, confessa commosso il fattore Filippo “due o tre volte al mese, nei sogni“.