La riforma del Senato spacca il Partito Democratico
Sui senatori a nomina presidenziale il Governo va sotto due volte, riscoprendosi ostaggio di una minoranza che ha preso coscienza della sua forza
“La fatal Commissione”: così rischia di essere ricordata l’ultima riunione della Commissione affari costituzionali della Camera. Un’assise, quella che si è svolta mercoledì 10 dicembre, che ha confermato, se ancora ce ne fosse bisogno, che nel Partito Democratico infuria la bufera. Un vento caldo ed impetuoso che agita il partito e che surriscalda gli animi. Perché, quella sconfitta di misura che ha mandato sotto il Governo sulla riforma del Senato, seppur recuperabile in aula, a Matteo Renzi non è piaciuta affatto. Ancora meno, però, è piaciuta alla minoranza Pd la reazione “autoritaria” del Presidente-segretario, sempre pronto a sfoderare l’arma delle elezioni anticipate per scoraggiare quella “banda di ribelli” che, un giorno sì e l’altro pure, minaccia la scissione.
Doveva essere una passeggiata di salute. Una votazione semplice con un risultato scontato, invece la minoranza Pd prima si alza e esce dall’aula, poi rientra per votare compatta insieme all’opposizione. Il risultato? Governo battuto per due volte e riforma del Senato bloccata, o meglio modificata. Sì, perché quello che avviene nella notte di sabato è il chiaro segnale che i ribelli “dem” capeggiati da Pippo Civati, se vogliono, possono davvero mettere i bastoni fra le ruote al Governo. Adesso Renzi lo sa bene e non può più far finta di niente. Perché la riforma alla fine è passata, ma con le modifiche imposte anche da quegli otto “sciagurati”.
L’esecutivo per porre fine al bicameralismo perfetto, che rimarrebbe in vigore solo per le riforme costituzionali, è dovuto scendere a compromessi come mai prima. Accettare, senza colpo ferire, che fosse alzato il quorum per l’elezione del PDR, acconsentendo, inoltre, che venissero aumentati i poteri della futura camera alta sulle modifiche ai testi votati dalla Camera. Con la nuova riforma, quindi, il Senato potrà chiedere alla Camera di modificare i ddl approvati con maggioranza dei 2/3. La Camera però, potrà comunque respingere tale richiesta con maggioranza semplice per le leggi ordinarie e con quella assoluta per tutte le altre tipologie. Infine, e questa si che appare come una vittoria, il Governo è riuscito a conservare i tanto “chiacchierati” senatori di nomina presidenziale.
Il braccio di ferro sulle riforme – Così, dopo mesi di durissimi scontri senza esclusioni di colpi, la minoranza Pd è finalmente uscita allo scoperto, palesando quale sembra essere il vero obiettivo del dissidio. Altro che la visione della futura sinistra italiana, il centro nevralgico della “battaglia”, adesso, appaiono proprio le riforme: quella del Senato, tutt’altro che chiusa, ma soprattutto quella sulla futura legge elettorale, soffocata da mille emendamenti. Così, quelle stesse riforme, che sono state il cavallo di battaglia del Governo Renzi, ora rischiano di rivelarsi un pericoloso boomerang. Una bomba ad orologeria, pronta ad esplodere da un momento all’altro, mettendo a rischio la sopravvivenza stessa dell’Esecutivo.
Il ritorno dell’usato sicuro – Matteo, tuttavia, non si scompone, mantiene il suo aplomb e ricorda a tutti che dopo di lui ci sarà spazio solo per nuove elezioni. Il messaggio, lanciato forte e chiaro, questa volta non è rivolto solo ai soliti “scissionisti”, ma soprattutto ai “vecchi conservatori”, come li chiama lui. Quelli che pensava di aver rottamato, ma che invece, come l’erba cattiva, non muoiono mai. La “premiata ditta”, D’Alema e Rosi Bindi, responsabili, a detta del Presidente del Consiglio, di tramare alle sue spalle nel tentativo di ostacolare il percorso riformista. Un “colpo di coda della vecchia guardia” che, pur di far cadere il Governo, scenderebbe a patti anche con il “diavolo di Arcore”.
Le correnti interne – Così, più passa il tempo e più Matteo Renzi sembra essere affetto da un delirio di onnipotenza. Un male tipico di tutti coloro che non sono abituati a condividere il palcoscenico e che, spesso, porta a vedere nemici dappertutto, anche dove forse non ci sono. Ecco allora che si finisce per confondere una semplice esternazione con un tradimento e il diritto all’autonomia con la volontà di far cadere il Governo. Perché se è vero che la resistenza interna al Pd può contare su una variegata costellazione di gruppi, dai riformisti di Roberto Speranza, alla sinistra Dem di Stefano Fassina, passando per i “Civatiani”, i “Bersaniani” e i Giovani Turchi, è altrettanto vero che molti di questi gruppi, nella pratica, sembrano molto meno ostili di quello che Renzi vuole far crede. Infatti, basti ricordare che, al netto degli scontri dialettici, proprio Bersani è stato il primo a ribadire la sua “fedeltà” al partito o come Roberto Speranza, senza il quale non si sarebbe mai raggiunto l’accordo sulla riforma del Senato.
L’aria “democratica” si è fatta pesante. Non passa giorno, infatti, che qualcuno non si scomodi a manifestare il suo personale malessere per una riforma o, semplicemente, per l’atteggiamento di un Presidente del Consiglio troppo preoccupato della sua immagine per ascoltare le opinioni altrui. Si, perché Matteo Renzi lo ha detto fin da subito, lui va dritto per la sua strada e non ha tempo per ascoltare. Così, nel tentativo, tra l’altro tipico della sinistra italiana, di rivendicare spazi di autonomia intellettuale o morale, molti si dimenticano che è stato proprio grazie a questo atteggiamento che il Pd ha ottenuto il 38% alle scorse europee. D’altro canto, però, è vero anche che questo “nuovo” Pd a tutto assomiglia meno che ad un partito di sinistra, da qui, forse, i mal di pancia interni al partito. Una sorta di malinconia di un tempo che fu e che molti rimpiangono. Un tempo, però, in cui la sinistra non era di Governo ma solo di opposizione e neanche troppo dura.
Per ora non è dato sapere quanto durerà il Governo Renzi, quello che però è certo, è che alla fine di questa esperienza la sinistra italiana si risveglierà diversa, cambiata nell’anima e nel corpo. Quello stesso corpo che con tutta probabilità continuerà a minacciare scissioni e spaccature, perché è sempre stata questa la ragion d’essere di una forza politica che mal digerisce gli uomini forti al comando.
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